Al Teatro della Tosse di Genova la danza negata dall’Iran e la poesia in esilio dalla Turchia: un talk con Nasim Ahmadpour, Aslı Erdogan e Deniz Ozdogan

Il 27 novembre si è tenuto del foyer Tonino Conte del Teatro della Tosse di Genova l’incontro “Teste danzanti” con Nasim Ahmadpour, Aslı Erdogan e Deniz Ozdogan (autrice e interprete dello spettacolo “In tutte le ore e nessuna”). Nel cuore di un fine settimana in cui Resistere e Creare, la rassegna di danza contemporanea della Tosse,“parla la lingua dell’altro” attraverso tre spettacoli internazionali da Iran, Turchia e Libano.

La condirettrice del Teatro della Tosse Marina Petrillo ha aperto l’incontro portando l’attenzione sulla forte coerenza che lega queste tre proposte: “libertà di espressione, confini che si attraversano nonostante tutto, artisti che parlano da luoghi in cui parlare è pericoloso”. Ricorda come gli spettacoli in programma – We Came to Dance, In tutte le ore e nessuna e Beytna – costituiscano tre declinazioni della stessa urgenza. Cita anche la notizia arrivata dalla Germania: la tournée di Beasts & Bodies della compagnia Overhead Project (previsto alla Tosse il 5 dicembre) è stata annullata dopo le dichiarazioni di una performer contro il genocidio in Palestina. “Un altro segno – dice Petrillo – di quanto oggi la libertà artistica sia fragile e continuamente negoziata”.

We came to dance: conversazione con Nasim Ahmadpour

La drammaturga e regista iraniana Nasim Ahmadpour ha raccontato la genesi del lavoro. “Lo spettacolo nasce tre anni fa”, spiega, in un contesto di crescente repressione culturale in Iran. “Il governo iraniano ha vietato la danza. Per questo nel nostro spettacolo il movimento non è mai agito né riprodotto: sono solo le parole a evocare la danza”.

We Came to Dance, infatti, non è solo una “lettera d’amore al teatro”, ma soprattutto un esercizio di resistenza: due danzatori immobili descrivono i movimenti che vorrebbero poter compiere. L’assenza diventa così un atto politico.

Ahmadpour ricorda come il primo studio dello spettacolo sia stato commissionato dal Kunstenfestivaldesarts di Bruxelles, e come il lavoro sia il secondo atto del progetto Tables, un progetto strutturato su quattro tavoli e quattro artisti sempre seduti. “Per noi è stato un atto politico importante essere tutti e quattro insieme. In Iran, per essere artista devi avere un permesso e noi non esistiamo come artisti agli occhi dello Stato”.

Il racconto prosegue: “Dobbiamo andare nei luoghi non ufficiali, sotterranei, nelle cantine. È tutto underground. Non possiamo pubblicizzare gli spettacoli sui social media: esiste solo una rete di passaparola, una rete amicale. Sono semi fertili in clandestinità che stiamo cercando di far crescere”.

Torna più volte il riferimento al Ristorante 141, citato nello spettacolo. “È uno di questi luoghi clandestini. Il fatto stesso di nominarlo è un modo di documentare la clandestinità. E sappiamo che la storia la fa chi vince”. Anche le ripetizioni nello spettacolo diventano un linguaggio: “È un modo per tornare spesso sugli stessi temi”. Tre dei quattro interpreti non sono attori ma registi e drammaturghi (l’eccezione è l’attrice Ilnaz ShabaniI), in questo modo “vanno oltre il personaggio” e portano in scena la propria presenza reale, non rappresentata.

In tutte le ore e nessuna: conversazione con Aslı Erdogan e Deniz Ozdogan

Petrillo introduce la scrittrice, fisica e attivista Aslı Erdogan, autrice dei testi dello spettacolo di video, musica e parole andato in scena a LaClaque. Erdogan vive oggi a Berlino, da esule, dopo essere stata incarcerata in Turchia con l’accusa di terrorismo per i suoi articoli sui diritti umani. “Ha una madre ottantenne in Turchia e non può andare a trovarla”, ricorda. La sua sola presenza in sala diventa un gesto politico.

La prima a parlare è l’attrice Deniz Ozdogan, in scena insieme a Davide Minotti e Valeria Miracapillo. “Erdogan è una donna impermeabile a qualsiasi definizione. Forte, bellissima e fragile, combattiva, gentile. Mai sposata, poetessa, fisica e ballerina”. Racconta di come Minotti le abbia proposto di lavorare al film tratto da un’opera dell’autrice non ancora tradotta. “Per la mia generazione Aslı è un mito. Per me è stato un sogno”.

Ozdogan aggiunge un dettaglio domestico e sorprendente: “Erdogan si è innamorata di Genova e vorrebbe trasferirsi qui. A Galata, il quartiere genovese di Istanbul, ha vissuto anni ed è stata felice. Qui si è sentita a casa”.

Quando prende la parola, Aslı Erdogan trasforma il foyer in un luogo sospeso. “La fisica è diversa dall’essere un fisico, lo stesso vale per la poesia ed essere poeta”, dice. Racconta delle passioni e delle delusioni che ha attraversato: “Al CERN ero l’unica donna a studiare fisica nucleare. Ho avuto delusioni nella fisica, nella politica e nel balletto”. Poi una frase che rimane nell’aria: “Al CERN è più comune impazzire tra i fisici che tra i poeti. Simile a questo, solo la prigione”. E infine: “Non si può scrivere senza bruciarsi le mani. Bruciamo e basta”.

Davide Minotti e Valeria Miracapillo, autori del film omonimo e musicisti dal vivo  nella versione “performativa” chiudono l’incontro raccontando la genesi del progetto filmico: tutte le parole utilizzate sono tratte da un’opera di Erdogan non ancora tradotta, un lavoro che restituisce la sua voce nuda, senza mediazioni.

Uno stesso filo che attraversa i corpi e le frontiere

Dalle conversazioni emerge chiarissimo il filo che lega gli spettacoli della settimana dedicata a Iran, Turchia, Libano: la danza come atto negato e per questo necessario, la poesia come luogo di resistenza, il cibo e la festa – come è accaduto in Beytna di Omar Rajeh dove il banchetto coinvolgerà anche il pubblico – come possibilità di salvezza, di creazione di una comunità di umanità. “Una settimana senza confini, di armonia nella diversità”, per citare il programma del festival, di artisti che non possono danzare, di artiste che non possono tornare a casa, e tuttavia la capacità, attraverso l’arte, di aprire spazi in cui incontrarsi davvero.

Simone Pacini

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