Tramedautore 2017: la nuova direzione artistica e il debutto con Barberio Corsetti

Ieri, 13 settembre 2017, il Piccolo Teatro di Milano è tornato ad aprire le porte a “Trame d’Autore”, festival internazionale della nuova drammaturgia – appuntamento oramai consueto, che da anni anticipa e idealmente inaugura l’inizio della stagione teatrale milanese. Nata nel 2001 come fiore all’occhiello di “Outis”, centro teatrale di drammaturgia contemporanea, da quest’anno la rassegna saluta la direzione artistica di Benedetto Sicca, che raccoglie il testimone dalla stessa Angela Lucrezia Calicchio, Presidente e membro fondatore dell’associazione, e da Tatiana Olear.

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Un’edizione ricca e sfaccettata, questa pensata dal giovane regista, che l’ha voluta densa non solo di spettacoli teatrali (undici, dal 13 al 24 settembre), ma corollata da tutta una serie di eventi collaterali: performance di strada, eventi nel Chiostro del Piccolo Teatro Grassi, concerti, film e video, residenze e una giornata di studi, sabato 23 settembre, in cui, tra l’altro, verranno presentati i testi di due degli spettacoli in programma.

 

Ad aprire le danze è stato “Mi sa che fuori è primavera”, progetto di Giorgio Barberio Corsetti e Gaia Saitta (pure in scena), a partire dall’omonimo testo di Concita De Gregorio sul caso Schepp. Correva l’anno 2011 e ce la ricordiamo tutti la terribile vicenda delle gemelline fatte sparire dal padre, poi suicidatosi senza lasciare traccia delle bimbe se non il sinistro presagio: “Non hanno sofferto”. Ce la ricordiamo tutti anche perché la tenace madre – italiana benché trasferitasi nel canton Berna, da dove ha avuto inizio la folle corsa che, in cinque giorni, ha portato Matthias Schepp ad attraversare, indisturbato, Svizzera, Francia, Corsica, fino ad approdare in Italia, trovando una morte volontaria sui binari di un per lui anonimo paesino della Puglia – ha lottato come una leonessa instancabile nel cercare le bimbe, anzitutto, e poi comunque una verità, capace di restituirle, se non le sue creature, almeno delle risposte. “Una tragedia contemporanea”, così, l’hanno giustamente definita anche la stessa De Gregorio, Barberio Corsetti e Gaia Saitta, che, a fine spettacolo, si sono fermati per un incontro col pubblico condotto dallo stesso Sicca. E, però, quel che colpisce, è il taglio dato alla narrazione fin dalle pagine del libro. Tragedia, infatti, evoca scacco e la maschera del dolore deformata da una smorfia che si cristallizza in una lacerazione inemendabile. Viene in mente Niobe, pietrificata dallo sterminio dei figli – all’origine, un atto di superbia… – e trasformata in una fonte rocciosa eternamente dannata a versare lacrime inemendabili; eppure non c’è nessuna nemesi, qui: nessuna dannazione, ma un pensiero sorprendentemente attuale e resiliente, capace di tornare a far propri i poveri cocci di un’esistenza distrutta, impreziosendoli con trine d’oro, secondo l’uso giapponese.

MI SA

Per raccontarcela, questa storia, si è scelto un modo colloquiale. “Non si tratta tanto di recitare una parte – hanno spiegato, gli artefici del progetto -, quanto di vivere un’esperienza”: così si è scelta come formula quella di una mise-en-éspace, quasi, ma supportata da pochi, ma precisi oggetti di scena. Tra questi, un uso volutamente strumentale di spettatori volontari, le cui reazioni vengono amplificate da videocamere, che ce ne restituiscono primissimi piani impietosi e quasi voyeristici – insieme agli elementi salienti di quella che, nel contempo, si evolve come un’indagine poliziesca. Tutto questo per dirci che, sebbene nessuno di noi, probabilmente, abbia vissuto un’esperienza così devastante, alla fine, però, siamo tutti accomunati nell’esperienza dell’assenza – l’assedio dell’assente, come vien definito. Così il volto, quasi porcellanato, della ragazza, a cui la protagonista si rivolge come fosse sua nonna – una nonna amata teneramente, ci racconta… una nonna, che compiva 90 anni, il giorno esatto, in cui lei, Irina, dava alla luce le sue gemelline… una nonna esponente di una storia familiare di resilienza e rinascita, al di là dei canoni di una stagione falsamente perbenista – genera un evidente ossimoro per ovvie ragioni d’età; eppure è presto compensato dalla diffusa dolcezza di uno sguardo, che, ad onta dei tratti anagrafici, ingenera un ragionevole sovrapposizione. Oltre a questo escamotage, che ingenera un transfert quasi fisico fra io narrante e un destinatario/ricevente, che si fa pubblico nel senso più polivoco, inclusivo e proiettivo del termine – non c’è solo la nonna, in questa sorta di chiamata a testimonio, che poi in fondo altro non è che un appello ad una corresponsabilità di una ricostruzione più emozionale, che cronicistica -, ci sono anche gli oggetti. Pochi, scelti, fortemente significativi, tali da assumere quasi una consistenza da coprotagonisti: i post-it gialli (con cui Matthias inizia a tappezzare casa, nel suo crescente delirio ossessivo-compulsivo), un tavolinetto attrezzato all’uso, attraverso cui raccontare di acqua – elemento pacificatore – e scrittura: ossessione, manipolazione, comunicazione formale e tutto quel che non torna, nell’ambito delle indagini, nonostante tutto. Interessante, l’uso della parola (forse la vera protagonista): poetica, spesso, e commovente, ma sempre precisa e rigorosa e mai indulgente – come avrebbe facilmente potuto diventare, a fronte di una tematica del genere -, anche quando indugia nel campo minato dei ricordi, riesce a non scivolare nel patetico e neppure nel semplice sentimentale, cosa di cui non sempre è capace, invece, l’interpretazione della Saitta. Intensa, generosa, tecnicamente vigorosa, questo sì; eppure forse un po’ troppo coinvolta. Sembra scordare, la Saitta, la regola aurea secondo cui il pubblico si commuove attraverso il medium dell’attore – e che se è lui stesso ad assolvere, in prima persona, la pulsione catartico-emozionale, il flusso s’interrompe e il transfert non passa. E sembra scordare anche l’altra regola dell’evitare l’andamento monocorde – per cui, per quanto si possa essere riusciti ad individuare una tonalità comunicativa esatta, efficace o azzeccata, poi tocca comunque avere il coraggio di giocarci: abbandonandola per poi tornare a riacchiapparla, evitando, così, che il pubblico possa adagiarsi, cullato dalla mono-tonia dell’affabulare. Cosa che raramente, in verità, in questo forse un po’ troppo prolisso spettacolo è successo: grazie a una parola, che, quasi da sola, riesce a farci volare e a un’ideazione intrigante e inclusiva quanto basta.

Francesca Romana Lino

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