“Case Matte”, viaggio teatrale (au) tour della psichiatria italiana

Potrebbe sembrare un’idea bislacca,“Case Matte” , tour teatrale che, dal 5 settembre al primo novembre, ha viaggiato in camper lungo lo Stivale. Ha toccato otto delle principali strutture ex-manicomiali italiane e tessuto un sottile fil rouge fra esperienze differenti eppure condivise a partire da un intento comune: la testimonianza. Poi è diventa anche racconto, dialogo, confronto e recupero dei luoghi dismessi per farli rivivere in un modo più autentico e partecipato.
Il tutto prende le mosse da “Mombello. Voci da dentro il manicomio”, spettacolo teatrale in qualche modo inevitabile per il Teatro Periferico di Cassano Valcuvia. Sono lì, a due passi dall’ex struttura psichiatrica abbandonata e fatiscente di Limbiate e diventa un’urgenza assumersene la responsabilità. Un gesto politico, certo, civile e necessario. Eppure non si tratta di teatro sociale. Lo ha detto bene Gigi Gherzi, nella serata di restituzione conclusiva. L’attenzione non si ghettizza alla casistica di questo tipo di disagio, ma si spalanca a quella dell’umano in quanto tale, includendo anche questo fra le declinazioni di quella fragilità, che sembra essere cifra della condizione umana. E allora affiora l’imperativo al racconto per mantenere viva la memoria – così come anche all’empatia e al meticciato con la vita, sole possibilità contro il buonismo di una rievocazione edulcorata o celebrativa. E’, quest’ultimo, uno dei rischi che sembrano preoccupare di più Paola Manfredi, ideatrice del progetto oltre che regista dello spettacolo. Se l’intento è ridare dignità ai ‘matti’, la sola via per lei sembra essere quella della riappropriazione inclusiva e sociale degli spazi – sono molte le esperienze di onlus che, recuperando i luoghi delle ex psichiatrie, hanno coinvolto come soci lavoratori soggetti dalla fragilità sociale – e non di un’ipostatizzazione asettica e celebrativa. Teatro militante, vivo e vitale. Teatro fattivo e partecipativo. Ecco, queste, probabilmente, le cifre da cui scattano la sinergie con le altre strutture coinvolte. Otto città – Limbiate, Genova, Reggio Emilia, L’Aquila, Aversa, Roma, Volterra e Firenze – e tre eventi: lo spettacolo “Mombello. Voci da dentro il manicomio”, “C’era una volta… il manicomio”, passeggiata teatrale nei luoghi nosocomiali a cura di Chille de la Balanza e la presentazione del libro “Atlante della città fragile” di Gigi Gherzi – oltre a dibattiti sul tema psichiatria e recupero degli spazi nel dopo Basaglia. Di tutto questo è stato reso testimonianza sabato primo novembre, a Milano Villa Finzi, un giardino pubblico che ospita fra l’altro alcune strutture della Asl. E’ in questi luoghi della sanità che si è proiettato una video testimonianza dei luoghi toccati. A far gli onori di casa Paola Manfredi, per raccontare del progetto – di come sia nato e di come si sia evoluto nella presa dei contatti; e di come si sia poi svolto, in quest’incontro itinerante con ex-manicomi differenti fra loro. Ci ha detto dell’esperienza forte di Aversa, dove il carico umano ha fatto germogliare incontri dall’umanità ricca e preziosa. E’ il caso di Antonio Esposito, docente dell’università di Napoli, che ha poi reso la sua testimonianza del lavoro fatto nell’ex manicomio di Aversa, nell’intento di recuperare uno spazio sottratto alla cittadinanza e che rischiava di cadere nelle mani della criminalità organizzata. Siamo nella Terra dei Fuochi e l’unico puntello contro la delinquenza sembrano ancora essere il tempo – il passato della memoria e il futuro della progettualità, ma poi anche il presente della riappropriazione e presa in carico -, lo spazio – luoghi restituiti ai cittadini, gli ampli giardini che tipicamente costituiscono i manicomi d’inizio secolo – e la relazione – quella stessa che distoglie i matti dalla loro malattia, non ingannandone il tempo in un’attività occupazionale, ma cercando di riattivarne l’abilità sociale ed affettiva in una relazione. Per ogni tappa una storia, una caratteristica, un’inclinazione: dall’esperienza di collaborazione con le istituzioni sanitarie, a Genova, all’opg (ospedale psichiatrico giudiziario) di Reggio Emilia, dove la situazione era molto più delicata e, prepotente, si è posto il dibattito sulla contenzione; da situazioni di totale precarietà come a L’Aquila, ancora in via di ricostruzione dopo l’ultimo sisma, a musei perfettamente easy friendly ed interattivi, giocati sull’empatia col visitatore.

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Questo solo per restituire qualche suggestione, prima di assistere, l’indomani, allo spettacolo.
Intanto buio, per il primo quarto d’ora buono. Quel che il pubblico sente sono le “voci da dentro” dei degenti, ma, prima ancora, quelle di una donna, che poi scopriremo essere un’assistente sociale. Chiede informazioni per raggiungere il reparto. Immaginiamo un parchetto, com’era in molti nosocomi dell’epoca, e lei che vi si aggira sperduta. E’ lei che c’introduce, in avanscoperta quasi, in quel mondo talmente lontano e inimmaginabile, che con felice intuizione registica ci vien presentato come un buio pesto attraversato solo da rumori. Sono i passi sicuri del dottore, quelli stanchi degli infermieri e quelli striscianti dei degenti; ma, soprattutto, è il rumore delle chiavi – “sacre”, vengono dette – e delle serrature e dei chiavistelli. E’ la litania delle raccomandazioni sull’importanza di chiudere sempre scrupolosamente. “I malati vanno contenuti nelle celle e i contenuti nelle celle sono i malati”, dice l’infermiere, con una stringenza che ha un ché di kantiano.
Eppure quel buio è solcato da voci. Sono le lamentazioni dei matti e il loro ossessivo chiedere attenzione in quella sigaretta, monetina o caffé, che domandano senza sosta a chiunque si aggiri per il reparto. Sono i loro pianti, i deliri e gli squarci di un desiderio di normalità, che già sanno gli verrà negato. E così scompensano. Significativo il passaggio in cui un pregevole Antonello Cassinotti, interpretando un matto a colloquio con l’assistente sociale, ammette: “Vorrei scappare per volare… per andare al ristorante… per vedere le papere… per andare a cena.. per uscire e basta… – e poi finalmente conclude – per bere… perché mi hanno abbandonato”, sul finire del primo tempo.
Ma le voci sono anche quelle degli infermieri, figure intermedie fra medici e pazienti, che non possono non interrogarsi sulle condizioni di vita proprie – “dedizione quasi assoluta… perché noi qui ci lavoriamo, ma ci viviamo anche…” – e dei pazienti – “una città nella città… un’immensità di pigiami tutti diversi”. A poco a poco una luce fioca sembra farsi coraggio. E’ proprio come lei, l’assistente sociale, che timidamente stringe i primi approcci con gli ausiliari e poi con i matti, sgusciando dentro e fuori dalle loro stanze e provando a instaurare una relazione e imparando a modularla a sue spese.

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Lo spettacolo si tiene in un lungo corridoio: su un lato, assiepati, gli spettatori; sull’altro una teoria di porte, che continuamente si aprono e si richiudono, nascondono e custodiscono voci, stralci di storie e accenti dalla diversità tanto evidente quanto in linea con molti prototipi déjà vu. E’ proprio questo, l’intento drammaturgico: non c’è un racconto in senso proprio – inizio/svolgimento/fine. E’ la ricostruzione realistica ed anti psicologistica di quei “casi” che, al di là della variabile di un certo nome e di una certa storia, si assomigliavano un po’ tutti, in quei reparti. Così la regista sceglie alcune azioni – preventivamente un accurato lavoro di ricerca fra i testimoni di chi a Mombello ha avuto internati o accesso per motivi lavorativi e non – e le sottopone agli attori, in modo che ciascuno possa cucirsene addosso una precipua, prima di creare una partitura d’incontri. E poi lavora con le immagini, la fisicità dei matti e i loro tic tipici. Pregevole restituitizione quella di Dario Villa ed Elisa Canfora, ma anche da già citato Cassinotti, Raffaella Natali, Lilli Valcepina e Loredana Troschel, qui pure drammaturga – oltre che degli operatori, Laura Montanari/assistente sociale, e Giorgio Branca/infermieri e Alessandro Luraghi/dottore. Quel che ne viene fuori è una coralità dalla plasticità gericaultiana, interpretata in modo magistrale da attori dalla prossemica schietta e inequivocabile, ma che non mancano della rotondità delle persone reali.
Nel secondo tempo si segna un ulteriore step di disvelamento. Le camere vengono estroiettate nel corridoio e gli spettatori sembrano egualmente messi a nudo di fronte all’impietoso colpo d’occhio su quel che fino a lì si era solo sentito o intuito, ma anche puntualmente contenuto con la reclusione nelle celle. Invece ora tutto è davanti a noi e ciascuno può guardare senza censure. E quel che si mostra è la quotidianità di un reparto psichiatrico a cavallo della riforma Basaglia. Tutto quel che capitava prima nel suo modus brutale e ospedalizzato – accudimento, igiene e contenimento – e tutto quel che ha iniziato a capitare, quando si è provato anche a creare una relazione – pur con tutti i limiti che quelle condizioni comportano. Così dopo scene dalla durezza quasi realistica – la camicia di forza o il bendaggio al letto con tanto di cappuccio sulla faccia per ovattare le esternazioni del paziente contenuto -; dopo le azioni ripetute e compulsive che portano dentro a quei mood da vita di reparto, che ce lo fanno crescere addosso quasi anche a noi, il born out del personale paramedico; dopo le lamentazioni e le recriminazioni paranoiche e la variegata gamma delle variabili del disagio psichico e del ritardo mentale – spesso causato dall’abuso di sostanze psicotrope -, ecco la Legge Basaglia (13 maggio 1978) a cercare di ridare dignità e rispetto ai pazienti. Perché se ci sono casi in cui la forza della parola non basta a placare le improvvise intemperanze di menti deliranti e di corpi dalla violenza amplificata dagli eccessi della follia, vero è pure che luoghi di reclusione e contenimento probabilmente finiscono con l’essere fatalmente inefficaci sia per i matti che per chi di loro dovrebbe prendersi.

Francesca Romana Lino

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marzo, 2024

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