A volte capita: semplicemente così. Quasi per caso capita di venire a sapere che c’è un pulmino di critici che sta per partire per il Festival delle Colline Torinesi dove si esibiranno, fra gli altri, le SheShePop; capita di recuperare – rocambolescamente… – il contatto dell’ufficio stampa e di riuscire ad accreditarsi per tempo; ma, soprattutto, capita di poter respirare, sia pure schermati da un finestrino fumé dall’estraniante effetto acquario, paesaggi che cambiano, precipitandosi verso la città della Mole; e poi un fare teatro, che è sì lo stesso che hai visto nella tua città, eppure il friccicorio è asincronicamente diverso.
Capitava così, giovedì 15 giugno, quando, accolta sul torpedone dei baroni della carta stampata ed esimi addetti ai lavori, un po’ pulcino sperduto, un po’ euforico scolaretto alla sua prima gita scolastica, si partiva per il ventiduesimo Festivale delle Colline.
27 spettacoli in 19 giorni, recitava il sottotitolo di quest’edizione tenutasi dal 4 al 22 giugno scorsi in vari spazi del capoluogo torinese; e ben tre – tutte Prime Nazionali – ne abbiamo infilati, in un solo pomeriggio. Se il focus, quest’anno, è stato per lo più sulla figura della donna (dalla Nelly Merz di Chiara Guidi alla Emily Dickinson di Milena Costanzo fino alla Bronislawa Wajs, la Papusza di Elena Bucci, passando attraverso alle profughe portate in scena dai Motus, alle eroine delle favole, ma a modo suo, di Licia Lanera, alla strega Amalia dei Marcido Marcidoris fino all’ Amica Geniale di Fanny-Alexander e a Roberta Bosetti, che recita se stessa), a carattere femminile, anche gli spettacoli concentrati in quella mezza giornata. “Ifigenia in Cardiff” della compagnia Teatro di Dioniso (in anteprima alla Casa Teatro Ragazzi), “Personale Politico Penthotal” di e con Marta Dalla Via, alla Lavanderia a Vapore, e, al Teatro Astra, il gruppo berlinese SheShePop con “50 grades of shame”.
Sicuramente spettacoli differenti (per linguaggio, intenzioni e poetiche); altrettanto certamente, spettacoli il cui minimo comun denominatore può essere rintracciato in una condivisa non convenzionalità oltre che nell’intelligenza e incisività nel parlare del contemporaneo.
Forte, la via crucis laica di Effie, impersonata da una Roberta Caronia dalla mimica e dall’energia dirompenti, ma non strabordanti, che, da sola, regge tutto lo spettacolo. Scandito in un numero di quadri di poco inferiori a quello della rievocazione della Passione di Cristo, “Ifigenia in Cardiff”, regia di Valter Malosti, si gioca nello spazio profondo e angosciante di un palcoscenico vuoto e buio; meglio: dark. In fondo, una lavagna, su cui la protagonista torna, atto dopo atto, a cancellare, per poi sovrascrivere, ancora un altro numero. In sequenza crescente, con stravolta solennità, quasi a restituirci il peso e l’amara fatica della dura lezione che la vita le impone. La drammaturgia dell’inglese Gary Owen racconta con un linguaggio volutamente duro, crudo e volgare – come solo certe biografie sanno esserlo -, la vita di una creatura suburbana, fatta di stenti, espedienti e alcool, per resistere a tutto. Con un curioso movimento scenico, l’attrice si volta di spalle, a tratti, per poi rigirarsi subitaneamente, quasi a dare un tempo e un ritmo a quel racconto feroce, fatto di frasi oscene, sparate e al vetriolo. Quasi a segnare un tempo e un respiro – chissà, forse alla vergogna o al suo bisogno di interrompere: la vita, la (sua) storia, ma forse anche il ricordo, prima che lo schifo la soffochi -, che, intersecandosi con l’altro movimento (l’andirivieni dalla lavagna), ci restituiscono un profondissimo senso d’instabilità (fisica, psichica, economica ed emotiva). Eppure Effi è Ifigenia, dunque in qualche modo votata e designata ad assolvere ad un sacrificio che la eccede; è Cristo – in versione laica e profondamente femminile, nel senso più pericoloso e umiliante del termine -, chiamato ad accogliere su di sé il male del mondo per redimerlo. Una prova d’attrice ineccepibile, capace di giocare fra mimesi attorale e interlocutorietà col pubblico, a cui sembra chiedere complicità in questo viaggio fin dentro all’inferno e, forse, ritorno.
La seconda tappa (della nostra personalissima e per fortuna gioiosa via crucis), invece, ci ha portati a Collegno, alla Lavanderia a Vapore, per “Personale Politico Penthotal”, progetto dei Fratelli Dalla Via e Gold Leaves, di e con Marta Dalla Via e i rapper Omar Faedo (Mooval), Simone Moneguzzo (Dj MS), Michele Siclì (Lethal V), Alessio Sulis (Rebus) e Giovanni Zaccaria (Zethone). Questa “Opera Pop per Andrea Pazienza”, come recita il sottotitolo, immagina la protagonista sottoposta ad una surreale seduta psicanalitica: onirica, nel senso letterario del termine, in cui, recuperando il mondo immaginifico di Andrea Pazienza (ma, soprattutto, il suo sleng da-dapaz) prova a riscrivere la propria storia come dentro a un suo fumetto. Come da titolo, i tre nodi sono la Politica (il riferimento è alla Bologna fine anni “70 e il Penthotal (alter ego di Pazienza, oltre che droga e sostanza preparatoria utilizzata nelle esecuzioni capitali), oltre che l’esperienza Personale. Il significato è chiaro: il teatro – e la musica, come chiaramente mostrano i cinque rapper in scena – come resistenza, ribellione, ricerca di senso: non di uno accomodante, ma – e non potrebbe essere più vero in quegli anni/contesti – estremo, contro corrente. Fino al limite estremo dell’eroina (termine usato, qui, sia nell’accezione di “nome come di persona” con allusione alla protagonista di questa striscia raccontata attraverso il trip indotto nel percorso di disintossicazione, che di “nome comune di cosa”, la sostanza allucinogena, appunto). Fino al sogno che incombe ed incuba sia la musica che il teatro. Proseguendo il lavoro linguistico inaugurato già nel precedente “Drammatica elementare”, il testo torna a giocare su assonanze, doppi sensi e plurivocità dei fonemi, creando un corto circuito sinergico, supportato, sul versante del linguaggio contemporaneo, dal quel rap che non vira sul versante pop. I colori e le atmosfere sono quelle di un surrealismo, che scolora nell’onirico cartoon style e le sollecitazioni tanto martellanti, da travolgerci, quasi, in una sbigottita sbornia.
Dulcis in fundo, l’ultima tappa al Teatro Astra con SheShePop e le loro (liberamente tradotte) “50 sfumature di vergogna”. Il collettivo berlinese, senz’altro interessante e all’avanguardia anche per il linguaggio capace di mescolare la visual performance con una scrittura asciutta e sapiente, ma certo non priva di graffiante ironia, ha proposto un escursus su “sesso e vergogna”. Sotto forma di lezioni (for dummies?), a turno uno dei performer (SheShePop, ma anche membri aggiunti, dai più disparati età, fisici e orientamenti sessuali), si sono prestati a questo gioco di “educazione sessual-sentimentale”. La destinataria ideale è la giovane Zelal (età auto dichiarata 16 anni). La formula è quella della “lezione”, declinata al plurale, in una sorta di conferenza-spettacolo. “Forse la cosa migliore sarebbe svestirci tutti per fare sesso tutti insieme, Così ognuno di noi potrebbe mostrare e insegnare qualcosa. Avremmo un intero spettro di possibilità, di forme corporee e di inibizioni. Ma non si può.Una tale scuola dell’amore non è prevista nella nostra cultura”. Prendendo le mosse dal “quid decet aut dedecet” fare in luogo pubblico, questo “corpo docenti collettivo” apparentemente si colloca nella tradizione del pensiero normativo e dello ius condiviso, ma per scardinarne, invece, con un affilatissimo bulino satirico, gli usi e costumi imposti da un così detto comune senso del pudore. “Un misto di predica, dark room, gioco di ruolo e lezione frontale”, così definiscono la propria cifra. “Il materiale didattico sono i corpi qui presenti e la vergogna che hanno accumulato”. Così mentre apparentemente parlano di sesso, sentimento e prescrizione sociale – il materiale letterario lo rubano a due pietre miliari del cammino di liberazione sessuale, quali “Risveglio di primavera” e “Cinquanta sfumature di Grigio” -, in filigrana denunciano il mondo contemporaneo, figlio di una morale, che ha instillato vergogna e senso di colpa, idolatria di corpi idealizzati e stereotipati, che argutamente stigmatizzano e sbeffeggiano attraverso il loro linguaggio visuale. Giocano a creare – o forse semplicemente svelare, mostrandoli – improbabili mostri/mutanti, scaturigini dei loro esperimenti visivi (ineccepibile la tecnica e la millimetrica sovrapposizione, che scaturisce dall’apparato tecnico). Sono pezzi di corpo – seni flaccidi o abnormi, testicoli cadenti, pance gonfie e ridondanti o gambine secche e petti rachitici -, che, nel gioco ironico della sovrapposizione video, si assemblano in quell’improbabile e meta fisico corpo docenti collettivo, la cui lezione, affondando nei capitoli di sesso, vergogna, ruoli maschili e femminili, omo ed etero sessualità, clichés, potere, verità e finzione, masturbazione ed educazione sessuale, al fine torna a riveder le stelle in una molto tedesca danza macabra. Finalmente liberati da una secolare vergogna e da un’ansia da prestazione estetico-sociale, i morti potranno serenamente abbandonare quel corpo, che già Platone definiva “tomba dell’anima”. Nessun moralismo; solo una giocosa sarcastica liberazione, che, mentre ci affranca dalla vergogna, non ci vuole puro spirito, ma rivendica per tutti il diritto di accettarsi, amarsi e viversi con la propria corporeità data.
...blogger per voyeristica necessità!
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