“Ombre folli” di Vetrano/Randisi fa volare le, da quest’anno, “Lecite/Visioni”

È iniziata mercoledì 25 ottobre 2017 – e proseguirà fino a domenica 29 – , al Teatro Filodrammatici di Milano, la rassegna di teatro LGBTQIA (acronimo di lesbiche, gay, bisessuali, transgender o transessuali, queer, intersessuali e asessuali). Giunto alla sua diciottesima edizione, il Festival si emancipa e cambia nome: da Illecite a Lecite/Visioni, “perché di strada ne è stata fatta tanta”, spiegava, in conferenza stampa, il Direttore Artistico Mario Cervio Gualersi, non senza un legittimo orgoglio per quello che anche la sua instancabile opera di sensibilizzazione ha saputo fare. Da quest’anno, il programma si fa più ricco, includendo uno spettacolo di teatro-danza (giovedì 26, “iLOVE + OMOSESSUALE” di Fattoria Vittadini), uno di teatro-canzone (“FRI FRI”, il 27, con Le Brugole, ospiti oramai irrinunciabili) e un’ospitalità straniera (“PRAGA”, il 28, Prima Nazionale dello spagnolo Javier de Dios Lòpez); fiore all’occhiello “Le scoperte geografiche” di Marco Moana, presente già nella scorsa edizione, che, in questa, sarà replicato il 23 novembre per una matinée scolastica, a conferma di quanto, queste tematiche, si stiano sdoganando, diventando momento di riflessione condiviso. Intanto il 20 ottobre c’era stata l’anteprima con “Atti Osceni” di Moisés Kaufman – un extra moenia, così lo aveva definito Marina Gualandi, Direttore Organizzativo del Teatro Filodrammatici, alludendo a questa produzione del Teatro Elfo Puccini, ideale epigono della kermesse e che continuerà a replicare fino al prossimo 12 novembre – per concludersi, domenica 29 ottobre, con la nuova fatica di Pippo Delbono: “La Notte”, uno spettacolo-concerto tratto da “La nuit just avant les forèts” di Bernard-Marie Koltès.

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Già, ma, intanto, le danze, ieri, sono state aperte dalla toccante “Ombre folli” di Franco Scaldati. Insieme a “Totò e Vicè” e “Assassina”, compone la trilogia, che il duo Enzo Vetrano/Stefano Randisi dedicano alla scrittura del drammaturgo palermitano da poco scomparso. Il Sarto, così lo aveva soprannominato Franco Quadri, alludendo alle sue origini – abbandonata la formazione scolastica ancor prima della licenza elementare, era andato a bottega in una sartoria: questa, la sua porta d’accesso al mondo del teatro -; e, quelle di Scaldati, affondavano in un sentire e fare teatro, figlio di Pirandello e del suo dubbio, dello sgomento e della follia, ma anche di quella prosaica capacità di sospendere il giudizio, a un certo punto, e smetterla di chiederselo, cosa sia il sogno e cosa la realtà, cosa il bene o cosa il male.

E così è anche in questa “Ombre folli”, che non racconta semplicemente la favola delicata dell’incontro di due anime. Sullo sfondo la gretta connivenza e il becero perbenismo di un sentire di provincia alla De André, Pasolini, Guccini – dove quel, che è pubblicamente deprecato alla luce del sole, viene poi subdolamente perpetrato con la complicità delle tenebre -, e lo cunto, che si fa attendere, insinuandosi, a poco a poco, in quei toni di surrealismo magico e di proiezione onirica, in cui tutto scolora in parola e azione lirica.

In scena – avvolti, accompagnati e travolti da una volteggiante musica da camera – i due attori si muovono in uno spazio tripartito, la cui scansione si fatica a decodificare, a tutta prima. Sull’estrema destra Stefano Randisi alla macchina da scrivere – forse una citazione della figura dello stesso Scaldati, già cavalcata, del resto, nella versione cinematografica di “Totò e Vicé” -, che batte sui tasti. Forse un racconto o, chissà, la pagina autobiografica dei propri fantasmagorici flussi di coscienza, della paure ancestrali risvegliate dalle tenebre notturne o di uno di quei ricordi, che col tempo svaporano, mescolandosi con un vissuto, che quasi non sappiamo più dire se ci appartenga come protagonisti o come sognatori. Sono le sue parole a palesare quell’ alter ego – Enzo Vetrano -, che si affaccia, proprio come un’evocazione spiritica, nel corridoietto scandito da lumini cimiteriali, che taglia – longitudinalmente – il palco; quando lo scrittore scompare – s’infila cappotto e cappello, quando s’è fatta l’ora -, eccolo riapparire in quell’eteronimo, che scompagina, assieme all’altro, le fila del discorso, in un modesto salottino d’antan, riesumato da sotto i teli bianchi. Fino a ché – finalmente – il cunto prende forma e ci rivela, dopo pagine dense e gassose come gli strali oscuri di una nebulosa ancora in via di formazione, la toccante storia dei due schètti (gli unici due rimasti scapoli, nonostante l’età: l’uno a causa delle sue inclinazioni sessuali, l’altro…).

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È una storia forte, quella portata in scena da Vetrano/Randisi. Forte, soprattutto, è la scelta drammaturgica di Scaldati: non la linearità della narrazione – per quanto scabrosa e viscerale, pur nella sua poeticità dai tratti quasi osceni –, ma la scelta di mostrarcela attraverso lo spaesamento destabilizzante della sua genesi. Quel che ci vien mostrato sembra quasi un percorso iniziatico attraverso il fitto di una foresta; è il contorcimento tortuoso di una creazione, che certo non batte i sentieri pervi del raziocinio, ma indugia e s’attarda a spiare attraverso fessure, dentro alle quali è facile perdersi. E, forte, è la scelta registica dei due di giocare a farsi eco l’uno dell’altro, a invertirsi i ruoli e a farsi portavoce scambievole; fino a diventare l’uno traduttore dell’altro nella scelta dovuta, a causa di una lingua dialettale così radicale. E se anche i significati non sono esattamente gli stessi – si sa: ogni lingua ha un potere evocativo e di sintesi, che difficilmente si riesce a restituire, in tutta la sua portata -, l’operazione è certo virtuosa, specialmente nel cercare di restituire la medesima delicatezza lirica, nonostante la sconvolgente prosaicità di tante situazioni evocate al limite del lecito. Felice anche quel raccontarci – da destra a sinistra, negli spazi del palcoscenico -, come il movimento di una macchina cinematografica, che, zummato sugli occhi del protagonista che si abbandonano ai ricordi, scivolasse, all’indietro, in un movimento anti orario di recupero della memoria. Ma, annotazione non meno dovuta, felici sono anche i tempi, modi, ritmi e registri – e, diciamolo: tecnica, sensibilità e maestria – della recitazione di Vetrano e Randisi – scuola Leo De Berardinis, le cui suggestioni strizzano l’occhio, rivelando la consanguineità con Le Belle Bandiere o Alfonso Santagata, ad esempio. Così la lentezza, che non è noia o mancanza di ritmo, ma respiro e capacità quasi alchemica di sustanzializzare l’atto; e, la pacatezza, nonostante una consistenza dei fatti spesso oscena e quasi da denuncia, non dice ignavia, ma tenerezza, compassione e umane accoglienza e accettazione.

Francesca Romana Lino

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