La sfida vinta della Sindrome del Gioco dell’Oca

Quasi una sfida, questo “Goose. La sindrome del gioco dell’oca”, di e con Elise Perrin (creatrice pure delle maschere), Ladislaja Pietrangeli e Marialice Tagliavini (con il sostegno di Loterie Romande, Fondation Engelberts, Fondazione Göhner, Fondazione BCN e Ville de Neuchâtel), che Teatro Linguaggicreativi ha presentato in stagione dal 2 al 4 marzo 2018. Quasi una sfida, perché si tratta di uno spettacolo di teatro di figura – uno di quelli, quindi, solitamente relegati nella sezione teatro per ragazzi –, che qui si scegli invece di accogliere nella programmazione serale. Una tacita investitura, tanto più da parte di uno spazio, che ha già ampiamente sperimentato e sostenuto le domeniche pomeriggio per le famiglie – spettacolo per bambini e poi merenda condivisa -, ma che qui sembra dirci che di tratta di qualcos’altro.

In effetti questo è uno spettacolo non solo per un pubblico under (l’indicazione è: spettacolo dai 5 ai 99 anni anni). Tematica universalmente condivisa – le tappe della vita -, riesce a parlare a ciascuno in base alla stagione che sta attraversando; e lo fa – sfida nella sfidariportando l’accadimento teatrale a quella verginità quasi primigena, che trova naturale espressione nella maschera – larvale e poi timidamente espressiva –, integrale e pertanto muta, che esige il recupero di una primordiale amplificazione nell’uso del corpo, nella prossemica e nella mimica, di cui le tre interpreti non difettano di certo. Elemento aggiuntivo, qui, è il sapiente uso del commento musicale, dai temi classici e dai colori strumentali pensati e azzeccati, con cui Nathan Jucker riesce a fornire carattere e fruibilità a questi personaggi volutamente afoni.

Il risultato è un ensemble dalla liricità sospesa, delicata e rarefatta, che non rinuncia, però, alla comicità e ad una punta di affilata ironia nei confronti dell’oggi, che, con il suo asservimento agli standard produttivi e a una tecnologia spesso più subita che fruita, di quella delicata poesia sembra esserne esatta antitesi. Godibilissimo, in questo senso, il pastiche dei due anziani coniugi che confondono telecomando e cellulare e alla loro dis-avventura coi servizi dell’azienda “Ultimo Respiro”, impartiti dalla voce anonima ed immodificabile di un’operatrice telefonica del tutto analoga a quelle con cui abbiamo a che fare nella vita di tutti i giorni. E questo fa cortocircuito. Ci dice che quel mondo quasi evanescente e abbozzato a matita – alle maschere larvali, prima, e poi espressive, quasi a suggerire un’evoluzione/graduale presa di coscienza – corrispondono costumi di scena dalle felici iperboli e dalle imbottiture comiche quanto basta a far cadere ogni residuale atteggiamento pregiudizievole –, anche se ha i tratti pastello delle illustrazioni di un libro di favole per bambini, ci parla invece con acuminata ironia dell’hic et nunc, che, mutatis mutandis, intrappola ciascuno di noi in aspettative e meccanismi alienanti. Ci incasella, quindi, potremmo dire, in un percorso obbligato e scandito da tappe pre costituite: ecco in che senso gioco dell’oca.

 

Per altri aspetti, invece, la drammaturgia di questo Goose sembra non cogliere a pieno lo spirito del gioco dell’oca. L’andamento narrativo, infatti, qui è ostinatamente lineare – pur nella ripetitività, ad esempio, della routine lavorativa che porta il personaggio a invecchiarci, nel suo tran-tran spiroidale -, oltre al fatto che sembra essere quasi dimentico di quelle caselle speciali, che in certe occasioni ci portano ad avanzare, in altre a retrocedere o a saltare il turno obbligandoci comunque all’ingiustizia di un pedaggio imprevisto, ma in ogni caso vivacizzando il percorso segnato, che ci trascinerà comunque verso l’abisso orrido immenso/ov’ei precipitando/il tutto oblia come cantava il leopardiano Pastore Errante dell’Asia. Interessante è la sciamanica presenza del Tiratore di dadi. Figura tanto criptica quanto metaforica e probabilmente metafisica, scandisce il tempo e il senso del gioco: è lui che, busto lunghissimo – al punto da includere, nascondendola, la testa dell’attore/animatore, con suggestione alla Odin Teatret -, introduce e intervalla il gioco. Comparendo e sfilando fra i quadri narrativi, di fatto li carica della valenza di riprese da incontro di box, che, se per nulla intaccano la leggerezza della trama, forniscono un’altra suggestione e indifferente spessore a quell’ordito capace di parlare al pubblico più adulto. Certo resta una presenza misteriosa: acefalo e come animato, alla sommità del tronco, da un cartillo/bavero a proteggere la testa che non c’è – di nuovo il tema del mascheramento/negazione del volto -, forse richiama la cecità di un Fato comunque ineludibile fino al gesto estremo, di cui, in verità, si fatica a coglierne il senso. Quel che arriva in maniera splendida, invece, è il mirabile lavoro fatto da queste ragazze sulle maschere e i costumi, di certo, ma non di meno sulla mimica dai gesti piccoli ma preziosi, a volte, altre invece amplificate in una caratterizzazione fiabesca, che, capace di non fermarsi al semplice cliché, riattiva la nostra parte bambina riconnettendola con l’adulto che siamo o che vorremmo essere.

Francesca Romana Lino

Articoli correlati

Condividi?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Fatti di teatro - il podcast (ultimo episodio)

Vuoi ricevere "fattidinews" la newsletter mensile di fattiditeatro?

Lascia il tuo indirizzo email:

novembre, 2024

X