Con la cura e l’amore dell’archeologo che riporta alla vita le grandi creazioni del passato, Valter Malosti (regista, direttore artistico, profondo conoscitore del Teatro) ha approcciato l’opera di Giovanni Testori con un lavoro di analisi, di ascolto della voce originale dell’autore, per restituirne senso, tormento e potenza. Giovanni Testori è stato uno dei più importanti intellettuali italiani del 900, poliedrico, difficile, profondamente legato e radicato al suo territorio lombardo. Tanto da inventare per il teatro una nuova lingua, prevalentemente italo-lombarda appunto, con contaminazioni libere e audaci con il latino, lo spagnolo, l’inglese e il francese: una lingua che nel magazine Treccani viene definita «un’acre fricassea di idiomi diversi». È questo il parlato in cui si esprime la Cleopatràs di Testori ed è acre, sì, pungente, spigoloso, penetrante, ma gustoso. Una lingua che riproduce suoni, imita, fonde, sperimenta, si muove sul ritmo e sulla rima. Difficile da comprendere per un orecchio distratto, ma accattivante, affascinante, seducente. Come una donna di grande potere e mistero. Come una regina d’Egitto. In scena, troviamo Anna della Rosa a dare corpo e voce a questo mastodontico personaggio femminile, una delle attrici più talentuose, magnetiche e acclamate nel panorama teatrale.
Basterebbe fare alcune riflessioni su questo terzetto per chiudere qui la discussione su uno spettacolo che, a partire dalle premesse, è un successo designato e di fatto lo realizza in scena con grande maestria. Ma forse vale la pena andare ancora un po’ oltre, più a fondo, in questa visione conturbante e potente che tiene inchiodato il pubblico con il fiato sospeso fino all’ultimo stacco finale. Fino a quell’attimo di sospensione in cui la platea, una frazione di secondo dopo che il buio ha decretato la fine dello spettacolo, resta in silenzio per un micro secondo (che fa stringere il cuore a chi è in scena) ma che è necessario per tirare il fiato, per ritornare con la consapevolezza alla realtà e iniziare ad acclamare con un lungo applauso gli artisti che ci hanno portato fuori dal tempo.
Molto è stato detto e con grande precisione della grandissima bravura di Anna della Rosa, che compie una impegnativa prova d’attrice, recitando il suo complesso monologo nel vuoto: sulla scena nuda una perturbante onda sonora elettronica e il taglio laterale della luce la proiettano in uno spazio siderale assoluto, come il vuoto cosmico universale, in cui si staglia la sua figura di regina esotica, esoterica e quasi onirica. I suoi gesti netti e iconici ne amplificano le forme e la visione, come una marionettista che tira fili invisibili e muove gli oggetti della storia che racconta, disinibita, sfrontata, audace. Anna Della Rosa, magnifica, si muove con leggiadria sulla musica egiziana contemporanea, che ne descrive il profilo di antica regina, e su alcune arie di Puccini, che la associano a Madama Batterfly – anche lei disperata nella sua ultima ora morente, anche lei inarrestabile e irriducibile nel proprio sogno d’amore e di speranza – e a Liù, nell’opera della Turandot, che si trafigge a morte. Cleopatràs è un personaggio preciso del passato, ma in lei rivivono grandi e altre tragedie, che in bilico tra Amore e Morte, hanno scritto con coraggio e sofferenza il proprio destino. Compare in scena anche un servitore, che porta il cestino contenente il serpente con cui la Regina ha deciso di togliersi la vita (nell’opera di Shakespeare, pur di non finire prigioniera di Cesare Ottaviano che l’ha sconfitta, Cleopatra decide di togliersi la vita offrendo il proprio seno al morso del serpente velenoso e questa è la morte che anche in questa pièce Cleopatràs deve affrontare), ma il servitore non è altro che un accessorio, un «inutilissimo fustone», una superficie su cui far rimbalzare la propria luce. L’attrice è sola, non ha nessun appiglio intorno, se non un microfono in mano, per amplificare quella voce cangiante e mordente, nello stesso significato che se ne dà nella lettura ad alta voce, cioè con una grande articolazione che serve a scandire bene tutte le parole – sconosciute perché inventate- e ad amplificare l’intensità delle sfumature e delle emozioni. E, sola, tiene il pubblico inchiodato a lei, occhi negli occhi. Alle sue spalle compare una camera da letto, moderna, lussuosa, illuminata da una luce tremula, che è scenario di visioni e luogo del climax finale. Ancora una fusione, un cross over tra passato e presente, tra suoni antichi e moderni, in cui tutto vale, per raccontare la storia di una regina, ma anche di una donna, in cui rispecchiarsi: lo sfogo, le frustrazioni, le emozioni, i ricordi, i desideri, le pulsioni.
Lo stesso Valter Malosti, nelle sue note di regia, definisce chiaramente questa sua idea di Cleopatràs, terrena, sensuale, lussuriosa, ironica, colta nella sua ultima ora: «una grande regina, gran signora, menagèr, star, soubrette al tramonto di una vita grandiosa, a cui sfilano davanti agli occhi le immagini della sua vita piena di eros, di amore, di soldi, di passione e anche di tenerezza», dice lui.
Testori nel suo testo dichiara e porta avanti l’ardita sperimentazione di fondere l’antico Egitto con la Valassina, in provincia di Como: un salto mortale incredibile, eppure perfettamente credibile, per cui topograficamente queste due realtà geografiche si fondono nelle descrizioni e linguisticamente si accavallano i fasti dell’antica sovrana con l’attitudine dell’imprenditoria manageriale lombarda.
Cos’altro c’è da aggiungere?
Cleopatràs fa parte, insieme a Erodiàs e a Mater Strangosciàs, della trilogia I tre Lai, componimenti in cui grandi eroine del passato di fronte alla morte rievocano e raccontano il proprio Amore. Lai erano i componimenti lirici di argomento amoroso, ma non solo; lai sono gli strazianti dolorosi lamenti dell’animo umano. Ed eccoci qui al punto: Cleopatràs è di fronte alla propria morte, annunciata, affrontata, raccontata, servita, sberleffata, ma è la propria, individuale, morte. La morte di un essere umano che per quanto grandioso, divino, onnipotente nell’aver sfidato e oltrepassato tutti i limiti insieme al proprio amato, non può che cedere, impotente, di fronte alla fine, come qualunque altra forma di vita mortale. Ed è dura. Cleopatràs ha una bottiglia in mano, si aiuta con il whisky per farlo.
Cesare Ottaviano l’ha sconfitta, il vincitore le ha tolto «la polpa, l’ossa e anche la scorza». E adesso pur di non finire sua prigioniera, la Regina preferisce darsi la morte, la tanto temuta morte. Si figura la scena potenziale, di attraversare in ceppi il regno che era suo, coperta di fango, insulti e sputi e balza vivida alla mente la scena del Trono di Spade della grande Regina Cersei che allo stesso modo è punita e costretta ad attraversare la propria città. Questo spettacolo è la storia di Cleopatràs, ma viene da dire non solo.
«Ho da gridar amor e orror» dice lei e pensa al proprio loculo, alla bara «maledicta» che l’attende. Si mette a nudo: «Perché io me, da me, sputtano? » Cita Dante – Paolo e Francesca- per la dimensione del grande amore che la lega ad Antonio, però è un amore tutt’altro che casto, è carnale ai limiti dell’osceno, essendo lei, per definizione, una «reina troia». Il suo Tugnàs, che ha vinto su tutti gli altri amanti, ormai è morto e quindi lei si sente morire di nostalgia per lui. Lui che si è ucciso lasciandola sola nel momento della sconfitta e lei che lo ama ancora, dello stesso amore viscerale, al punto da desiderare ancora di poter leccare il suo corpo, seppur ormai cadavere coperto di vermi.
Nell’ultimo momento Cleopatràs va oltre anche il suo amato e dedica il suo canto all’Amore stesso, ma è un Amore «di ciavata», un Amore di passione e vita. Cleopatràs è serva d’Amore, per questo si è data al sesso, ai corpi, alla carne. Per Amore lei ha perso la corona. E per questo deve uccidersi: abbandonare tutto e morire, «farsi nullità». Che esistenza c’è ancora per Cleopatra, dopo la caduta? Lei che ha avuto tutto, si chiede: «Scorderò tutto di questa vita? »
È il lamento dell’essere umano che è stato divinità in vita e deve pur cedere ai limiti dell’umana condizione, per cui deve perire, lasciare tutto e finire, come tutti. Cleopatràs se la prende con chi ne ha scritto la storia, con lo «scrivano», con l’autore: perché deve finire così? E inevitabilmente finisce per prendersela con Dio, con il grande architetto delle sorti umane. Lo spettacolo tocca le vette della tragedia – cita Shakespeare- ma ne scivola sempre via, evitando accuratamente di diventare farsa di se stesso. Una bruciante, dissacrante e sorprendente ironia riporta il personaggio, e il pubblico, alla realtà. Docce fredde di commenti alla scena, al linguaggio, alla storia, smorzano l’emozione, come un continuo coito interrotto. Cleopatràs resiste, sempre più inclinata, riversa. Una forza in lei non vuole morire, canta, piange, urla, si arrabbia, eppure avanza nella titanica impresa di morire. È il «crepamento» di ogni singolo essere umano, che è attaccato alla propria vita, che non vuol lasciare andare il proprio mondo, come Mazzarò nella novella La Roba di Giovanni Verga, che spara alle galline per portarle con sé, perché nessun altro le abbia dopo la sua dipartita. Così la rabbia di Cleopatràs è contro Cesare Ottaviano a cui non vuole lasciare il proprio regno, ma qui il dramma è esistenziale, è il grande mistero della vita e della morte, il perché, l’ignoto. Più profondamente e più direttamente Cleopatràs se la prende con Dio, per una nascita non richiesta a cui deve seguire una fine altrettanto se non più indesiderata. Nell’estremo momento si è soli, non c’è Antonio, non c’è lo scrivano che ne ha scritto le sorti, Cleopatràs è sola, come sarà per ognuno di noi. «Guardatemi morire», dice. Cleopatràs ha bisogno di raccontare la sua storia, perché è ciò che resta ad ogni essere umano alla fine del viaggio: il racconto di sé è un modo per sconfiggere la morte.
Di Giovanni Testori / Regia Valter Malosti
Con Anna Della Rosa / E con Marcos Vinicius Piacentini / Aron Tewelde
Progetto sonoro Gup Alcaro / Scene e luci Nicolas Bovey / Costumi Gianluca Sbicca / Cura del movimento Marco Angelilli
Produzione TPE – Teatro Piemonte Europa, Festival delle Colline Torinesi
Visto a Torino, Teatro Astra, il 5 ottobre 2021
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2 commenti su “Cleopatràs di Valter Malosti: grida di amore e orrore”
Non riesco a comprendere come si possa parlare bene di questa rappresentazione, tra i peggiori spettacoli che abbia mai visto. Uno spettacolo difficile da seguire per chi non abbia almeno una infarinatura di lombardo o comunque di dialetto del nord, ma anche per un ritmo forsennato e davvero poco comprensibile.
Infine ci tengo a sottolineare che questa frase ” Lo spettacolo tocca le vette della tragedia – cita Shakespeare- ma ne scivola sempre via, evitando accuratamente di diventare farsa di se stesso.” sia assolutamente falsa. Quando, durante un momento struggente, improvvisamente appare un uomo in mutande catarifrangenti, ballare convulsamente sul retro, ogni tentativo di serietà scompare e io non ho potuto fare altro che ridere.
L’elemento linguistico è sicuramente controverso, è interessante il suo commento perché apre la questione dell’accessibilità dello spettacolo. Rispetto all’autoironia del testo e della regia, sono scelte nette che possono generare reazioni contrastanti, grazie per contribuire con il suo punto di vista alla discussione.