“Troia’s Discount” di Ricci/Forte: desiderio di poetica provocazione

Ancora fino a domenica 9 marzo, ancora una volta in un teatro milanese – il Piccolo Studio Melato, ‘stavolta – Ricci/Forte tornano col loro “Troia’s Discount”, una cruda e provocatoria rappresentazione atta a stigmatizzare i deliri del consumismo, che lascia dietro a sé pesanti risacche di mancanza di progettualità e senso.

Come oramai siamo abituati e vedere, il pubblico viene accolto dagli attori già in scena: si tratta di cinque figuri – due donne e tre uomini, uno di loro in abiti femminili – tutti coi loro carrelli del supermercato. Una donna – Anna Gualdo – lo spinge davanti a sé, nella sua dimessa tenuta da casalinga e con lo sguardo fisso nel nulla a ricordarci la degasiana bevitrice di assenzio, l’altra – Chiara Cicognani – ce l’ha ingombro di spesa e, dei tre uomini, due – Alberto Onofrietti e Fausto Cabra – ci appaiono in una lì per lì incomprensibile tenuta adamitica ed il terzo – Giuseppe Sartori – con una maglietta bluette, su cui campeggia la scritta calcistica “Italia”, candida gonna scampanata da figurina felliniana, stivali con zeppa, in glitter argento, in perfetto stile anni “70 ed una corona – di carta – in testa. Una visione che spiazza: quale ne è, il senso? Di certo si sta parlando della grettezza di un consumismo mercificante. Gli uomini sono all’interno di carrelli, che muovono da soli – essi stessi vittime sacrificali al dio benessere -; ma, di più: quel che si desidera ed agogna non è il patinato e rutilante mondo del lusso, ma – più biecamente – basta quello di un discount, la cui insegna intermittente ed i cui scaffali traboccanti di merendine sembran sufficienti ad accendere le più sfrenate fantasie di questi improbabili antieroi. Ed è lì che si spalanca, il baratro drammatico. Ricci e Forte, infatti, con ardita pirouette, sovrappongono dei ragazzi di borgata – la temperie è quella pasoliniana… – niente di meno che con i personaggi dell’ “Eneide”. “Enea!” è un’invocazione ricorrente, quasi una sorta di magico demiurgo, che tutti pregano, ma che resta, come spesso gli dei fanno, fuori dal gioco.

Chi invece agisce, in questa vita fatta di espedienti, brutture, compromessi dal prezzo insostenibile e poi tutta quella ricerca di consumo ed autodistruzione, che – sola – fornisce ancora un minimo di emozione non chimica, sono questi uomini-tragedia – sorta di esseri quasi mitologici: mezzi (anti) omuncoli e mezzi (anti) eroi – che, all’interno di coreografie dalle colonne sonore sparate e dal gusto pop, si muovono ad alleggerire – ma solo nell’intento estetico – la densità del dramma.

Non a caso si scomoda il grande Virgilio. A poco a poco di svelano – nell’intimità di luci che cambiano -, i personaggi: la (drug)queen Didone/Giuseppe Sartori, attaccata ad una flebo – come sorpresa a vagare più fra i gironi di un reparto psichiatrico, che nel sospeso dell’oltre tomba -, racconta la sua via crucis di marchette, ingenuamente a colmare il suo forsennato bisogno d’amore – “Il tuo profumo. Non volevo di più.”. E poi le due donne – Creusa/Anna Gualdo e Lavinia/Chiara Cicognani – comunque violate, oltraggiate, stuprate: e non soltanto dalla violenza compulsiva e becera di un branco, che non sa inventarsi diversivi differenti – “Quando mai gli angeli sono caduti così in basso?” è la voce di Eurialo, cronaca del proprio stupro. Prima di tutto la vera profanazione, infatti, sembra essere quella di un consumismo mercificante, che ferocemente le costringe in ruoli e clichet spersonalizzanti. “Brucio…”, ripete senza posa Creusa; “Mi merito un’altra possibilità…”, era stato il suo esordio, ma poi la chiosa sarà in “pellicole, che mi separano dal mondo…”, mentre viene toccata e posseduta dal desiderio di gruppo. Ed anche Lavinia: spogliata e poi buttata in un carrello al di sopra del quale verrà servita un’ eucarista di patatine.

ph. Daniele+Virginia Antonelli
ph. Daniele+Virginia Antonelli

Restano tutti in scena, questi frammenti impazziti di un allucinato decostruzionismo di senso e valore, a punteggiare la sequenza narrativa più lunga e fluida: quella di Eurialo/Alberto Onofrietti e Niso/ Fausto Cabra e del loro amore omosessuale.

Quel che colpisce – drammaturgicamente – è sia come il linguaggio dei due borgatari subisca un’evoluzione poetica, col procedere della presa di coscienza del loro amore scomodo e fatale – “Una donna un uomo un pesce. Che ne sai? A natale uno s’accontenta del pacco o scarta il regalo? Una cosa. Fai finta che sono una cosa. La ghiaia che ti rimbalza sulle caviglie. Se fai buio dentro fuori è uguale.” -, sia come segni il ribaltamento della tesi iniziale: “L’amore non esiste: non quello corrisposto…”, sciogliendosi in una lirica visione dal respiro davvero epico: “I fiotti sul corpo bello dell’amico mio sembrano capelli rossi. Ma lui non cade. Al centro gli occhi suoi. Una chioma di cometa in photoshop che viene a prendermi.”. Quel che colpisce è pure l’equilibrio  speculare  per cui alla sferzante gratuità – si potrebbe pensare, sulle prime – d’immagini e provocazioni forti ed estreme, fa poi da contrappunto una quasi virginea e pudica reticenza, quando si scoperchia il pentolone di quel sentimento, che il consumismo vorrebbe divorare. E, allora, è quello, il vero scandalo. “Amiamo solo quello che non possiamo avere” è il cartello di brechtiana reminiscenza/manifesto, con cui chiosa, una Didone ormai spogliatasi dei simboli che la caratterizzavano. Ma, di fatto, se qui l’ ite, missa est suona così: “Pace. Andate via. Consumate al discount. Consumate i passi nella vostra rutilante catacomba di desideri rinnovabili”, quel che salva questa ferocemente poetica allegoria dei nostri tempi è l’ipotesi che possa in qualche modo ancora esserci, un amore corrisposto per quanto improbabile e disperato. E che questo possa sostituire – in salvifica direzione: ostinata e contraria – quel desiderio sterile ed inappagante, che, al contrario, non può che spostare la posta sempre un po’ più in là: asintoticamente. Inutilmente.

Francesca Romana Lino

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