Federica Fracassi è Blondi: cagna innamorata del suo Führer

“Blondi”, testo di Massimo Sgorbani e per la regia di Renzo Martinelli, vede in scena una Federica Fracassi dalla restituzione mimica sorprendente. Attrice a tutto tondo, non è certo una scoperta di questa pièce; ma, qui, sa mixare in modo sublime la performatività dei vent’anni oramai lontani, unendovi tutta quella preziosa esperienza, precisione, introspezione attoriale, che a vent’anni difficilmente già si possiede. Questa la considerazione a caldo: la prima che affiora alle labbra, a fine spettacolo, guardando quella donna che si è prodigata con perizia e generosità estreme per un’ora e mezza circa – lo stesso tempo di una partita di calcio; già, ma qui l’agone, se l’è giocato da sola, pur supportata dalla presenza dei due SS Lorenzo Demaria e Daniele Molino.

foto attilio marasco
foto attilio marasco

La storia fa parte del progetto “Innamorate dello spavento”, in cui Sgorbani, tratteggia figure femminili legate al Führer dal doppio e sottile filo di amore&paura – e che precipitano con lui verso l’inevitabile. Ma quel che colpisce, qui, è che Blondi è la cagnetta di Hitler e, ciononostante, riesce a raccontarci quella dinamica in modo visionariamente realistico e credibile. Merito della bravissima interprete – come si diceva -, senza dubbio. Ma ad onore del drammaturgo va riconosciuta una scrittura tanto basica quanto efficace. La scelta linguistica è precisa: pochi termini e di uso comune, nomi concreti – specie in principio – e ripetuti in modo ossessivo – come si fa, quando si addestra un cane… Ordini, più che tutto: comandi. E l’idea in più è quella di non farceli sentire emessi dalle bocche degli istruttori – sarebbero suonati duri, ostili, urticanti, probabilmente. Invece Sgorbani li mette fra le fauci di una Blondi ancora cucciolotta, che li ripete con l’entusiasmo del neofita e quell’allegra sprovvedutezza mista di adorante emulazione, che ben conosce chi abbia avuto un cane. Il risultato alchemico è un racconto tanto surreale, visionario e poetico quanto tuttavia verosimile: il ‘dentro la testa’ di Blondi, il suo tentativo di decodificare il mondo dei ‘due zampe’ – e, soprattutto, dell’adorato ‘padrone’ -, che evolve in tre quadri-momenti biografici successivi. La psicologia data in prestito alla bestiola è quella del bambino piccolo: una sorta di Cappuccetto Rosso, che si addentri nel bosco della vita, cercando di confortarsi, ripetendosi gli ammonimenti impartitile – “Oggi sole sole, erba erba, prato prato… Correre veloce via via… Non mi devo allontanare troppo…”. Poi il livello semantico si complica: ed il distinguo è fra ‘cose brutte’ e ‘cose belle’. Lo impara presto, Blondi: le cose brutte sono poche, ma – soprattutto – basta obbedire, per evitarle. E: “La paura forte fa imparare forte: s’imparano più in fretta le cose, con la paura… Adesso ho imparato: adesso obbedisco”. Fra le ‘cose belle’ “Pallina… biscotto… carezza…”, ma soprattutto: “Lo dico? – in quel fremito giocoso e pronto all’esplosione dei cuccioli, quando hanno il torace spanciato a terra, le zampe posteriori diritte e la coda quasi ad elica, per la contentezza – Il mio padrone: la cosa più bella di tutte!”. E’ una sorta d’innamoramento – non a caso la rivalità con Eva, anche se poi lo dirà, quasi alla fine: “Eva e Blondi: siamo due ‘stupide cagne’!” -, che porta a trasfigurare quell’uomo, di cui adora perfino gli stivali ed il frustino, in un essere perfetto e inarrivabile, di cui quasi rimuove le dinamiche di sopruso ed addestramento violento. Già perché se la prima fase altro non è che un viaggio iniziatico nella complessa ‘normalità’ della conduzione umana – certo, determinati approcci non sarebbero ammessi dalla cinofilia contemporanea: ma restituiscono perfettamente la diversa mentalità dell’epoca -, il discorso si colora e si complica, con il trasferimento lontano dai verdi prati delle Alpi. Siamo al di là perfino di quello che sembrava lo step più impegnativo – ‘cose facili’ e ‘cose difficili’: “Ancora non le so, ma faccio attenzione. Orecchie dritte dritte…” fino ad imparare ad alzar la zampa, emulando quel gesto all’immaginario grido di “Mein Führer!”, che un po’ la spaventa per la durezza delle voci e del gesto: “Ma poi nessuno picchia nessuno… così forse è solo un gioco come ‘pallina’!”. Invece, una volta giunti dove tutto è “nebbia e ‘biancomolle’ (la neve…) e muri e cemento”, lei viene relegata vicino al ‘fili che pungono il naso’, in una buca, ad aspettare il padrone. Poi i bombardamenti, la paura che sia morto nell’incendio e poi il ritorno – “Padrone… ancora! C’è un ‘prima’, c’è un ‘adesso’ e c’è un ‘ancora’: ho imparato”. Ma è la paura che prende il sopravvento: “Pallina di carne che si rompe in bocca… crack… liquido caldo… Ci sono giochi che si fanno una volta soltanto: imparo”; lo stesso padrone ha un odore nuovo: quello della paura. L’ultimo quadro la vede rinchiusa in un bunker: la fanno accoppiare con un cane di razza, partorisce i cuccioli e poi segue il destino del suo padrone.

foto attilio marasco
foto attilio marasco

Un’appassionata storia di amore e dedizione, in fondo: pur sotto il segno di paura e sopruso quali modalità di dominio del delirio hitleriano. Ma poi vien da chiedersi se non sia una subdola lusinga, che è forse troppo semplicistico imputare – ‘spurgandola’ – solo a quell’ideologia, come se non esistesse un approccio sinistramente analogo in molte relazioni di potere, anche nella normalità dei rapporti quotidiani, per non parlare poi di quelli che esplodono nei plateali gesti, di cui spesso riecheggia la cronaca.
Uno spettacolo davvero notevole, per la sua capacità di accedere – trasversalmente – a livelli e contenuti non così scontati. Belli anche alcuni quadri: le scene iniziali dell’incontenibile giocosità della cucciola, o, per converso, la sua rabbia, dietro alle grate della gabbia; l’occhio di bue puntato sui suoi incubi – tratto sorprendentemente realistico -, che variano, al variare delle vicissitudini; la scena del parto; la struggente commozione dell’epilogo. Altre scelte, invece, forse un po’ più discutibili: dall’eccessiva lunghezza dell’accoppiamento alla gratuità di un topless, di cui forse non si sentiva la necessità; così come l’esagerata movimentazione delle brande, che ad un certo punto davano quasi l’idea di voler mostrare un’esuberanza immaginifica piuttosto che avere una precisa funzione narrativa, così come la scena giocata a fondo palco, poco visibile entro una struttura circolare come quella dello Studio, specie coi letti ad ingombrarne il corpus centrale.
Ciononostante davvero uno spettacolo da vedere: intanto al Piccolo Studio, appunto, fino a domenica 01/06.

Piccolo Teatro Studio Melato – Milano
Dal 22 maggio al 01 giugno

“BLONDI”

di Massimo Sgorbani,
regia di Renzo Martinelli

con Federica Fracassi

Francesca Romana Lino

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