Ma questo è teatro? Spiluccando nell’estate milanese

Ma questo è teatro? La domanda potrà forse sembrare irrilevante, ma se, da pubblico medio, vi capitasse di fare un giro per gli spazi di quest’estate milanese, v’imbattereste in una tale quantità di eventi – definiamoli così, per ora… -, che certo non vi lascerebbero indifferenti rispetto al quesito.

Terminate le stagioni ufficiali e archiviati IT Festival e Milano Off F.I.L. Festival – a loro modo tentativi d’interpretare il teatro in maniera più smaccatamente underground e indipendente -, Milano resta in balia di proposte meno convenzionali. Sono Città Balena, rassegna di teatro estate d’inclusione/contaminazione col quartiere, promossa da Teatro i; Da Vicino Nessuno è Normale, festival ultra ventennale e capace di portare, negli spazi dell’Ex Ospedale Psichiatrico Paolo Pini, realtà teatrali interessanti e che difficilmente si vedono, a Milano, fuori da questo circuito; Estate Sforzesca, programma per l’estate a cura del Comune, che, fra le varie sollecitazioni artistiche, propone anche teatro nella suggestiva cornice del Castello Sforzesco; Opera Liquida, che porta all’Idroscalo l’esperienza teatrale di detenuti ed ex detenuti, fattasi drammaturgia contemporanea a tema sociale. Certo poi non mancano i teatri, che s’inventano rassegne atte a prolungare l’abbraccio col pubblico come Notturno a Teatro Fontana o Banco di Prova, fino al 6 luglio al Teatro Libero – pioniere, in questo, fin dai tempi della gestione Corrado D’Elia – e poi Liberi d’Estate, che ci accompagnerà fino a metà mese; ci sono poi i festival come Resta in Zona, all’interno di zona 6, a cui aderisce uno spazio come Linguaggi Creativi.

Castello Sforzesco di Milano
Castello Sforzesco di Milano

Certo verrebbe da chiederselo: “Ma perché ancora tutto questo bisogno di teatro?”. Fino a pochi anni fa le stagioni terminavano fra fine maggio e i primi di giugno e sembrava quasi una benedizione potersi dedicare ad altro e godere di quell’ otium, da cui nasce il desiderio da poter poi finalmente soddisfare con l’arrivo, in autunno, delle nuove stagioni. Oggi no: le stagioni riprendono a fine settembre, nel migliore dei casi, e per quanto questa Milano bulimica ci sommerga di proposte dalle forme e qualità più disparate, sembra che non se ne abbia mai abbastanza.

Così a Città Balena, ad esempio, rassegna estiva con una ripresa prima che la stagione ricominci, può capitare d’infilare, in una sola serata, una doppietta di “cose” teatrali. Che siano “Souvenir di Milano” – teatro in cuffia, progetto della compagnia svizzera Officina Orsi, che offre una memoria video del quartiere – e “Private Hamlet” – concept di Scarlattine Teatro, in cui un solo spettatore per volta viene chiamato a giocare a una versione shakespeariana e del tutto particolare dei tarocchi – o quest’ultimo e “Sandokan” – ovvero i Sacchi Di Sabbia, che raccontano la storia della Tigre di Momprecem mentre giocano a tagliuzzare e sminuzzare ortaggi e, insieme a questi, i canoni di un teatro rigidamente e seriosamente tradizionale – , poco conta. Quel che resta è che poco o nulla di convenzionale c’è pure in quella “Roberta va sulla Luna” di Cuocolo-Bosetti, che, al Teatro La Cucina all’interno del festival “Da vicino Nessuno è Normale”, si fa narrazione di sé – autobiografica e, in parte, autoreferenziale -, quasi a voler includere gli spettatori nello spazio privato del proprio salotto di casa per rispondere all’ipotetica domanda di un intervistatore curioso: “Come nascono, i vostri spettacoli?” Già, ma poi chissà se al pubblico interessa davvero.

"Private Hamlet" di Scarlattine Teatro al Teatro i
“Private Hamlet” di Scarlattine Teatro al Teatro i

Eppure, partecipando a queste situazioni spesso surreali – per luoghi, stimoli e cortocircuiti –, si vede che un proprio pubblico non manca. Nonostante gli acquazzoni estivi, nonostante ci si lamenti tanto che il proliferare degli spazi e degli eventi teatrali finisca inevitabilmente col falcidiare gli spettatori, a quanto pare la gente non perde mai il vizio dell’arte, per dirla alla Bennett, né sembra poi così preoccupato di stabilire se quella cosa lì poi sia o non sia teatro.

La sera che vidi “Private Hamlet”, ad esempio, Milano era spazzata da un violentissimo acquazzone, ma la cosa non impedì né a me, né a tutti gli altri fruitori, di raggiungere la zona dei Navigli per farsi fare le proprie personalissime carte. A metà fra gioco e narrazione – il format è impostato come una lettura dei tarocchi, ma la performer Giulietta Debernardi ci tiene a sottolineare come sia lungi da qualsiasi valenza divinatoria -, dopo una prima parte, in cui ci vengono spiegati e fatti scegliere arcani dalla grafica assolutamente impostata sulla figura dell’attrice e che, al posto dei tradizionali, il matto, il carro o la papessa strizzano l’occhio a molto più amletici gli attori, la nave o la madre; dopo la averci fatto scartare questa e ordinare quell’altra carta e dopo averci chiesto di fare una domanda, silente, alle carte e averci letto passato, presente e futuro e, finalmente sciolto il vaticinio, che ci premeva sapere; dopo tutto ciò ecco che le stesse carte, con i loro nomi, grafiche e topoi, ci vengono svelate e al tempo stesso ci svelano la storia di Amleto. E chi è, in fondo, lui, se non ciascuno di noi, moderni fantocci in perenne scacco, che come il gatto del proverbio, per dirla alla Lady Macbeth, tentenna fra il vorrei e il non posso? Il concept nasce in Finlandia e, ricucito addosso al singolo performer, viene esportato in molti Paesi d’Europa. Già ma che c’entra, questo, col teatro e con l’“Amleto”? Se il teatro è rito laico e incontro, allora ecco che questo in qualche modo rito della letture di queste carte Talmeh (anagramma di Hamlet), nell’esclusività di un rapporto uno a uno, ne è metafora e gioco. Senza quarta parete, cavalca quella voglia di partecipazione diretta, a cui il mondo dei social – e, prima ancora, la possibilità di toccare le cose con mano, nei grandi magazzini, prima, e poi nelle città mercato, fino all’estremizzazione di casse fai da te – ci ha sempre più abituati.

"Souvenir di Milano", Officina Orsi al Teatro i
“Souvenir di Milano”, Officina Orsi al Teatro i

Anti convenzionale è pure la proposta di Officina Orsi. Se la memoria è nesso necessario col passato come sola chiave di lettura del presente e di progettazione del futuro, la proposta di Rubidori Manshaft in “Souvenir di Milano” è documentare nel solo modo possibile, e cioè attraverso il racconto di chi c’era, allora, e ancora c’è, oggi, in qunato voce testimoniale di quella realtà, che, invece, non c’è più. Lo fa raccogliendo e montando testimonianze dirette, scelte fra le persone più differenti per età, sesso, pensiero e identità, in un continuo andirivieni di geo localizzazioni che proiettano ora il dettaglio del quartiere, ma per poi inserirsi in una gigantografia del mondo, che immediatamente restituisce tutt’altro respiro all’hic et nunc, di cui si sta raccontando. Stralci di vita. Barlumi di personalità differenti e bizzarre come lo siamo poi un po’ tutti, ciascuno a modo suo. E, anche qui, la domanda: “Ma, questo, è teatro?” Solo qualche sera dopo vedevo, in Estate Sforzesca, “Potevo essere io”, di Renata Ciaravino e interpretato da Arianna Scommegna. Anche qui il tema era la memoria, diretta, della protagonista. Le sue memorie di adolescente in un altro quartiere dell’allora periferia milanese, Niguarda, questa volta; eppure due prodotti profondamente differenti. Se Rubidori Manshaft di Officina Orsi non sceglie attori, né un copione – ma seleziona persone e costruisce una drammaturgia a posteriori, attraverso il montaggio dei contributi video all’interno di una cornice di senso, che è quello che sceglie di veicolare -, la Ciaravino scrive una partitura, che cuce addosso ad un’attrice del calibro della Scommegna: una di quelle, che conosce bene il suo lavoro e sa come enfatizzare la caratterizzazione del personaggio di borgata e come accelerare o rallentare nel modulare e suscitare le emozioni. Altrettanto bene sa farlo Roberta Bosetti, del resto, protagonista di questo strano teatro da appartamento, in cui i coniugi Cuocolo-Bosetti raccontano il mondo attraverso le avventure di Roberta, dopo la depressione in “Roberta cade in trappola”. Lì l’impietoso occhio della telecamera ne scrutava i sussulti, amplificandone le emozioni pietrificate e facendosi alfiere di una narrazione fatta di oggetti che ingombravano la tavola, persi in un caos quasi primordiale e poi tirati fuori e dotati di senso (o, quanto meno, di un senso) dal video demiurgo; qui Renato Cuocolo ritaglia per sé un ruolo del tutto inedito e passivo. La suggestione è comunque la performance – evento volatile per antonomasia, forse ancor più del teatro, ma che, come e più del teatro, lascia tracce spesso indelebili in chi vi assiste e partecipa – di Beyus: “How to explain pictures to a dead hare”; ed ecco che il gioco, di questa quattordicesima parte di Interior Sites Project, diventa: “How to explain theatre to a living dog”, come recita il sottotitolo.

"Roberta va sulla luna" di Cuoco-Bosetti al Teatro La Cucina, "Da Vicino Nessuno è Normale"
“Roberta va sulla luna” di Cuoco-Bosetti al Teatro La Cucina, “Da Vicino Nessuno è Normale”

In scena un animale vivo – il cane Nuvola -, un animale finto – l’orso polare entro cui è nascosto Cuocolo – e un animale finto – la pelliccia da sciura, che copre la vestaglia di trine di Roberta. Il gioco è spiegare a Nuvola il teatro, a lui, animale inconsapevole, vivo e vitale fra palco e platea, in realtà solo due ali di sedie ad avvolgere lo spazio bifocale entro cui sinuosa si sposta Roberta, nel dentro e fuori di personaggio e personaggio che recita se stessa, duettando, con la sua voce calda e suadente, con i microfoni, in cui scivola con tonalità ancora più blues. E se anche in realtà non va affatto sulla luna – anche qui: la luna, come tutto il loro mondo di oggetti, qui solo nominati, ma non per questo meno ingombranti nella loro vividezza, sembra essere solo un’éscamotage d’innesto per raccontarci come e perché fanno teatro -, dalla luna forse ritorna. E noi con lei, non tanto, forse, riportandoci a casa un senno rapito e poi riconquistato da un fido Ferraù, quanto forse proprio in quella domanda, che ritorna. “Ma è teatro?” – e, ancora: “Perché abbiamo tanto bisogno di teatro?”. A ognuno la sua risposta; certo è che forse davvero quel che ci si porta a casa, più del ché, è il come o il perché del farlo.

Francesca Romana Lino

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