Se Teatro è ogni manifestazione in cui a un qualcuno che agisce corrisponde inesorabilmente qualcuno che guarda, allora forse “Amore e psiche” di Teatro del Lemming non è teatro. E non è teatro, se siamo abituati a pensare che questo sia una fruizione di tipo tradizionale, in cui, la quarta parete ben salda, il ruolo dello spettatore sia quello di un voyeur attivo o passivo a seconda dei casi.
Sì, ma poi il teatro contemporaneo sempre più spesso mette lo spettatore davanti a una modalità di fruizione agita e partecipata – senza scordare che, per altro rispetto, il teatro nasce proprio da una coralità condivisa quale quella del rito. Così non fa specie il modo d’intendere il teatro di Teatro del Lemming. Lo propone riannodando due fili fondanti della relazione attore-spettatore: il recupero della dimensione officiante da parte del primo, che afferma la propria esistenza nella misura in cui va a recuperarli direttamente dall’ ancestralità del patrimonio mitologico, gli archetipi dell’agire umano, e la valenza co attoriale dell’altro, legittimato dal reciproco: “Es ergo sum”.
Dunque affonda i suoi presupposti teorici nella notte dei tempi, Teatro del Lemming, pescando a piene mani da quella grecità presocratica – e pre-platonica! -, che non considera il corpo tomba dell’anima e non ha paura di scoprirlo, invece, strumento e misura dell’indagine del reale.
Questi alcuni dei presupposti teorici della compagnia, che qui confeziona uno spettacolo/percorso per due: due i protagonisti del mito classico – Amore e Psiche – e due gli spettatori – un uomo e una donna, rigorosamente. Una corrispondenza a suo modo euclidea, che innesca subito un caleidoscopico gioco di rispecchiamenti. Così se per un certo rispetto si è spettatore e ospite, quasi, di quella che a tutta prima può sembrare una farsa giocata sulla categoria estetica del “meraviglioso” – che fa tanto Barocco, complice pure la location, lo splendido Palazzo Cordellina di Vicenza, più respirato e percepito nelle suggestioni in penombra, che realmente visto e fruito in tutto il suo splendore -, poi però si diventa anche noi stessi Eros e Psiche, a seconda dei casi, in uno spontaneo processo d’identificazione dal sapore comportamentista. “Piega la macchina”, aveva scritto, anni prima Pascal: quasi che, ad agire in una certa maniera, si finisca per essere quello stesso modo di agire. Dover passare per il corpo, allora, sembra diventare percorso irrinunciabile per poter accedere a quel che sta al di là della mera fisicità senziente: sollecitata in varie modalità ed espressioni, quasi a voler stordire qualsiasi residuo di Super-Ego censore o normativo.
Quel che capita, infatti, è di essere accompagnati per mano in un’esperienza, che vuole gettare lo spettatore in quello stesso brodo primordiale di sensazioni, sentimenti, spaesamenti – e poi anche conquiste e superamenti di sé -, che è precipuo di ogni rito iniziatico. Già, perché come in ogni cerimonia che si rispetti, anzitutto c’è il momento dell’accoglienza e della spogliazione: quel tanto di mistero che fa tanto Mistero e poi quel che implicitamente viene chiesto è una partecipazione totale e incondizionata. Spogliarsi delle proprie cose: borse e giacche, del cellulare, appendice oramai per molti irrinunciabile, e dell’orologio – altro “apparecchio di controllo”. Poi togliersi le scarpe – simbolica svestizione, che immediatamente rimanda alla ritualità di chi identifica questo con un gesto di rinuncia a qualcosa di ‘contaminato’ e ‘mondano’.
E infondo credo sia questo l’intento di chi orchestra un’esperienza teatrale del genere: non tanto “raccontare” alla testa e al cuore dello spettatore, ma farglielo toccare in prima persona. Sono molte le sollecitazioni sensoriali, visive e non, in questa sorta di gioco di ruoli in cui siamo più accompagnati che reali artefici. Perché la partitura è già scritta. “Così fu, così è e così sarà per tutta l’eternità”. E a noi non resta che farci strumenti di quel Fato, che in mutiforme ingegno, ci attira, trascina, lusinga, respinge, atterrisce, consola e poi finalmente premia, forse, con tutta la fatica, l’imbarazzo, ma anche l’inevitabile leggerezza e giocosità che il ludus teatrale ingenera. “Il mio lavoro è un gioco. Un gioco molto serio”, scriveva il geniale incisore danese Maurits Cornelis Escher e, mutatis mutandis, questo è applicabile a tutta la produzione artistica, quando ci si dedichi in modo autentico e appassionato. Rispecchiamento, quindi, ma anche la curiosa sensazione di sentirsi simultaneamente dentro e fuori. “Siamo-e-non-siamo”, per dirla alla Eraclito, Amore o Psiche; e siamo-e-non-siamo noi stessi, al contempo spettatori, ma anche attori, nell’estraniante elastico di chi sta sulla soglia del mistero.
Al Palazzo Cordellina di Vicenza, “Amore e Psiche” del regista Massimo Munaro – e con gli intensi Diana Ferrantini, Alessio Papa, Fiorella Tommasini e Chiara Elisa Rossini – ancora fino al 13 novembre.
Palazzo Cordellina, dal 6 al 13 novembre
TEATRO DEL LEMMING
AMORE E PSICHE – una favola per due spettatori
spettacolo riservato a due spettatori a replica // 7 repliche al giorno
...blogger per voyeristica necessità!
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