Non ha bisogno di presentazione, Alessandro Bergonzoni, arguto e stereoscopico comico dell’assurdo, noto al grande pubblico anche per i suoi frequenti passaggi in radio e televisione – oltre che per i libri, l’attività di paroliere per cantautori come gli Stadio e Piero Pelù ed una carriera che lo ha portato fino a tenere lezioni magistrali al Festival della Filosofia di Modena-Carpi- Sassuolo. Ed è proprio al grande pubblico che si rivolge questo mattatore: a “l’uomo medio”, come lo chiama – “l’uomo messo all’indice”. Gli sciorina quel modo tutto suo di fare comicità: trasfigurare i significati contigui delle parole, in un libero gioco associativo, che scolora nel surreale, aprendo squarci di senso insospettabili eppure lì, a portata di mano. “Potevi uccidermi – rimprovera il padre al figlio – Potevo? Ed ora? – Ora non puoi più: occasione persa…”, un piccolo saggio del cortocircuito semantico che si genera, se solo ci si attiene al significato letterale dei termini.
Ma questi guizzi non sono casi isolati: è tutto un tessere di boutade, freddure, facezie, che fanno ridere, lì per lì, sì, ma che poi lasciano anche ammirati, quando le sentiamo prendere forma nella trama di racconti orditi in modo tale che tutto torni. Come nella storia dell’automobilista sì vedente, ma ‘non vedente’, dato che tira sotto un motociclista, a sua volta ‘non veduto’ e ‘non creduto’ – “Ma dai eri lì? Non ti avevo visto…” -, il tutto sotto gli occhi di un cinghiale/riccio: non credente – a quel che succede -, ma osservante – dato il tutto avviene sotto i suoi occhi. E questo gli darà il là, più avanti, per venire a parlare di religione, fede, teoria evoluzionista, buoni e cattivi maestri – ma, soprattutto, al fatto che dovremmo essere noi stessi a rivendicare ruoli più fattivi e di minor sudditanza psicologica ed intellettuale di fronte a quei grandi maestri, che in qualche modo ci invita a ‘tradire’.
Ben precisi, dunque, i quadri drammaturgici di questo clinamen a salire: costruiti a tavolino e restituiti attraverso un ritmo performativo dalla battuta veloce ed esilarante, che pinga fulminea ad una velocità tale da restarne travolti, a tratti, pescando, quasi, nel subliminale. Una lunga sequenza al buio – a sipario chiuso -, in cui ci vien raccontato di problemi tecnici – si parla di leve, fumo, quadri: e già inizia il gioco degli equivoci fra il quadro elettrico e quello pittorico… -; poi la parte centrale: una scenografia essenziale e ‘prematura’, come recita il foglio di sala – fatta di surreali comici racconti, sì, ma già dalle prime provocazioni di pensiero – “Fare il funerale da vivi… Un padre che torna a casa ‘stanco morto’ da lavoro…” ci sono tutti i parenti e così possono chiedergli… possono parlarsi… E’ già un primo spunto di pensiero sull’incomunicabilità, in questo mondo, in cui la nuova religione sembra essere quella dell’esser connessi, sempre e comunque, ma in cui ci si perdono i più basilari legami con chi ci sta accanto. Ed il discorso si accomoda sulla paternità – “Aspetto un figlio… Io aspetto un padre!” -, sull’idea della morte “che ha dato luogo a tutti questi fili…” “Ago e Super Ago”, facendo il verso a Freud, “Tessere o non Tessere”, con Amleto. “Mi sono perso? Cosa ti sei perso? Dove sono gli altri? Ti sei perso la speranza? La ritrova un altro…”. E poi, quando meno ce lo si aspetta: “Collega… ‘collega’ è un verbo… fai passare quest’energia!” “Sei fuori con la testa? …stai nascendo!”, così tutto trasfigura, attraverso l’attenersi ad significato letterale, verso una vocazione altra: ‘poetica’ – ci tiene, Bergonzoni, a specificare – e non politica.
Eppure il dubbio resta: che dietro a questo modo formalmente leggero ed ostentatamente canzonatorio, si nasconda la solita tentazione: tirare i fili, giocando ad essere Lucignolo. “Chi l’ha detto che non bisogna bere prima di mettersi alla guida? L’importante è non deglutire…”, stuzzica, con un poco felice politically scorrect. O ancora: “I libri non si leggono… – gelo, ovviamente, nel pubblico di fronte al proprio guru – I libri non si leggono… fra loro!” e la risata liberatoria dice di quanto chirurgico sia stato il potere esercitato sugli spettatori. Poi parla di uomini ‘tarzaniani’ – “Kirkegaard, Schopeahauer, Terzani… Cita… cita…” e di come invece occorra che ciascuno in prima persona diventi lui stesso un Falcone, Borsellino, Impastato – “Sono io che devo pagare il pizzo”. L’ultima zampata la dà a centro palco: da un microfono calato dal cielo ed in cui sussurra un discorso simil ecologista sul brutto clima, che rimbalza presto ad altro ambito samantico: “Come va, la vita? Miseria, come va…” è, di fatto la chiosa, consegnata ad un pubblico accecato da proiettori raso terra sparati direttamente negli occhi.
E quando pensi che la performance sia finita, eccolo rientrare – certo, richiamato dallo scroscio degli applausi… – a regalare ancora una chicca; e poi un’altra… e poi un’altra ancora. Generosità di un attore che si spende oltre la fine? Ad un certo punto sussurra, confidente, alla platea, qualcosa del tipo: “Beh, lo spettacolo sarebbe finito…”. La gente ride, ma io mi stizzisco: perché mi sembra un po’ troppo gigionesca, una boutade del genere, quando in sala non si è neppure lontanamente animata la minima luce di servizio. E, sempre a buio pesto, torna in scena – per una terza volta… – ancora con lo stesso refrain: “Lo spettacolo sarebbe finito…” ed inizia a parlare del proprio sito – e della propria Weltanshauung anti social. “Fare nesso… sempre…comunque… con chiunque… Fare nesso senza precauzioni… fare nesso con la memoria del futuro di qualcosa che succederà, se succederà…” Cosa significa, allora, questo tanto sbandierato: “Facciamo nesso?” E mi resta il dubbio di un pur splendido ed arguto, tagliente, intelligente, visionario Mangiafuoco, lì, sotto le mentite spoglie di Lucignolo.
TEATRO ELFO PUCCINI – Milano
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