Milano, si sa, è brulicante di vita. Finita l’epoca da bere – anche se poi l’ape resta uno dei riti irrinunciabili, nelle serate meneghine -, Milano non rinnega la propria identità di lavoratrice instancabile. Se alla Falck e alla Pirelli si sono sostituiti sempre più gli interessi di moda, design e terzo settore, anche educazione, inclusività sociale e teatro (ma, più genericamente, arte e cultura) stanno colorando il lato B di una megalopoli, che sembra comunque non voler rinunciare alla propria specificità di crocevia. Incastonata fra Mediterraneo e Mitteleuropa, punto di raccordo di voli intercontinentali, non dimentica la complessità di un tessuto sociale, che è anche quello dei nuovi poveri e degli immigrati – spesso clandestini… -, non meno di quello della sciura Mariuccia.
E’ un po’ questa, la tonalità di Linguaggi Creativi, uno dei tanti spazi indipendenti, che da anni, contando su risorse quasi esclusivamente proprie – e sulla forza di progetti d’inclusività e lavoro sul territorio -, porta avanti la sfida personale a un fare teatro, capace di mixare produzione e ospitalità, stagione e formazione, spettacolo e progetti speciali. Così non fa meraviglia che passi anche da qui, quella stagione on the road, che Atir ha dovuto declinare in tappe di ospitalità presso gli altri teatri, a seguito della mancata ri-messa a bando del teatro Ringhiera (storica sede da un decennio, ora non più resa disponibile per motivi di agibilità e sicurezza, ndr). Fra queste, a Linguaggi Creativi, dal 20 al 22 ottobre – venerdì/domenica, come da loro consueta programmazione -, “Open”, reading dall’omonima autobiografia del tennista André Agassi, portato in scena da Mattia Fabris (fra i fondatori di Atir), alla chitarra Massimo Betti.
Ma se il teatro è corpo, che senso ha, un reading a teatro? E quale, l’appeal di un'(auto)biografia, in una società-esercito del selfie? E, per converso: non s’incorre nel rischio di acuire il già di per sé diffuso cannibalesco istinto di sbirciare a come lo fanno i vip – magari proprio da copertine patinate -, prima d’immortalarsi in compulsivi autoscatti?
Se fossero queste, le preoccupazioni, nulla di più distante di così, qui.
Sul palco solo pochi oggetti di scena: una sedia pieghevole e il leggio, al centro; da un lato, la postazione del chitarrista, dall’altro, una struttura, su cui, si capirà dopo, riporre la sedia, una volta richiusa, e una birra, che fa capolino, a colorare uno dei personaggi di svolta di questa storia.
Per il resto, tutto è affidato a lui, Mattia Fabris. Supportato dal contrappunto chitarristico attento e preciso di Massimo Betti, con un’espressività fisica giustamente enfatizzata, a tratti, ce li fa rivivere quasi nelle nostre stesse carni, il disagio e la fatica, la durezza e il dolore – fisico, perché, lo dicevamo, il teatro è corpo – per questo lavoro-non lavoro, la passione-e-l’odio, l’endiadi di quel mantra, che lo tarla dal di dentro: “Fa’ che finisca presto”, ma poi anche, insoffocabile: “Non sono pronto a smettere”. È l’abnegazione del bambino impaurito, che non può deludere il padre rabbioso, ma anche il riaffiorare della sua infantile voglia di giocare, libero e felice, in un campo da calcio, in cui sentirsi parte di un tutto, condividere le gioie della vittoria e tollerare la responsabilità di un’eventuale sconfitta – comunque sempre in agguato. Ma non è così semplice per lui, perché la furia paterna affonda le radici nella sorda sete di rivalsa socio culturale dell’iraniano nei confronti del colonialismo americano; così quell’uomo duro, intransigente e a tratti violento a poco a poco viene interiorizzato direttamente in quel Super Ego perfezionista, che, più ancora del drago spara-palle, si rivelerà essere il suo più terribile carceriere, prima ancora che temibile avversario.
Idealmente bipartito, l’adattamento scenico scandisce la biografia del tennista in due sezioni: l’accumulo, non lineare, delle informazioni biografiche – dal risveglio di un Agassi adulto, messo in ginocchio dall’odio e rialzato in piedi dall’amore (il riferimento, quest’ultimo, è alla famiglia costruita con la collega Steffi Graf, di cui parla con tocchi delicati e amorevoli, ma di cui non racconta altro che lo status quo, senza svelarcene la genesi) ai continui fashback, che, aprendo squarci sull’infanzia di André, gettano luce sulle ragioni ultime del suo accanimento e del suo profondo disagio – e poi quel fermo immagine, guardandosi allo specchio. È la vigilia dell’ultimo Open e l’immagine – intuiamo – è quella della copertina del libro. Cambia completamente registro.
La narrazione si fa quasi epica, dolente e faticosa come titanico in fondo è lo scontro delle pulsioni che gli troneggiano dentro. Due giganti si affrontano: quel Super Ego, che lo ha condotto fino alla vetta dell’Olimpo – incarnato da un padre-Chronos, incapace di compassione – e quell’ omuncolo, affezionato alla sua birra – l’allenatore americano -, che, fra una bevuta e l’altra, gli mostra le trappole sdruciolevoli del perfezionismo. Una seconda parte giocata a due voci: la cronaca della partita che si sta giocando, da una parte, e, dall’altra, il ricordo della filosofia spicciola dell’allenatore; in filigrana il colosso – dai piedi d’argilla, intuiamo -, che soffia, a livello subconscio, duellando col let it be del più testa e meno gioco.
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Ecco: una buona prova d’attore, questa di Fabris, che mostra anche una certa intuizione nello scegliere e adattare per la scena questo testo, che ha una sua chiara valenza esemplificativa – specie nell’ hic et nunc di una Milano, ma poi non solo qui, troppo spesso fagocitata da impegni che sembrano sempre irrinunciabili e che ci esigono sempre al top della performance. Forse un po’ troppo tirato, drammatizzato e acceso con tonalità quasi istrioniche alla Dario Fo, il racconto del seppur quasi mitico ultimo match: con quei tempi lunghi e quelle sospensioni eterne e quasi epiche delle partite di Holly e Benji, che, se ci riportano nella zona di confort dell’adolescenza – dove certo sono più titanici, gli scontri e amplificate, le emozioni -, rischia poi forse di far sorridere l’adulto che è in noi: di tenerezza, certo, e di empatia, ma poi forse un po’ anche d’indulgenza.
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