Per questo giorno particolare voglio regalarvi un estratto del mio articolo sull’esperienza dello spettacolo più emozionante a cui ho assistito a Buenos Aires, “La velocidad de la luz” di Marco Canale con le donne della favela Villa 31, la più grande e temuta perché situata proprio al centro della città, accanto al lussuoso quartiere della Recoleta.
Un pensiero a loro e a tutte noi.
Entriamo nel barrio humilde
Iniziamo la visita entrando in una delle case che da fuori incutono paura e quel brivido dell’ignoto, arrampicandoci su per scale traballanti e facendo attenzione a non battere la testa ovunque. Ogni cosa è messa insieme senza logica, un pezzo di lamiera, un controsoffitto da ufficio, una scala di ferro battuto, una rete da pollaio dalla quale spuntano latte di pomodori che ospitano piante grasse e gerani. Tutto lo spettacolo è concepito come un viaggio all’interno della Villa, le testimonianze e le azioni sceniche elaborate dal gruppo che ci accompagna narrano un viaggio all’interno del viaggio che facciamo in questo incredibile posto. Un viaggio dell’anima, un viaggio nella memoria e davanti ai nostri occhi l’America si spacca in mille frammenti, brillanti, dolorosi, di terra e polvere, mani e sogni spezzati. Quanti passi si fanno per rincorrere i sogni perduti. Passi di danza, a volte.
I visi delle persone che compongono il gruppo di lavoro, per la maggior parte donne, segnano provenienze diverse; alcune vengono dalla Bolivia, dal Paraguay, dal Perù e dalle zone più povere dell’Argentina. Tutte hanno lavorato un intero anno con Marco Canale, giovane regista argentino e ideatore di questo percorso laboratoriale sul quale il FIBA ha voluto scommettere inserendo la prova aperta del site specific nella programmazione. Le repliche sono esaurite prima dell’inizio del festival, anche se quasi tutte sono la domenica mattina alle 11:00. Io riesco a infilarmi in una recita straordinaria grazie all’accredito stampa e devo ammettere che questa resterà una delle esperienze più particolari della mia vita.
Viaggi nello spazio tempo
Una volta arrivati a casa sua, un uomo di Mendoza con un cappello da cowboy e dei mocassini, dai tratti nativi, ci racconta che quando è arrivato qui lui e i suoi figli – che allora non erano ancora 16 – dormivano su casse di mele perché, a causa delle demolizioni, a terra era pieno di formiche rosse che mangiavano tutto. Aveva ricevuto il lotto di terra dal governo e aveva tirato su un tetto, poi negli anni ha costruito il resto, insieme ad altre famiglie che si aiutavano l’una con l’altra lavorando insieme. Tutti cantano una canzone e poi scendiamo di nuovo in strada.
Siamo sempre scortati dalla polizia che ci segue con volanti e moto mentre camminiamo dentro la Villa per arrivare alla cappella, costruita in una specie di spiazzo sul quale si affaccia un campo da calcio circondato da palazzine multicolori, alcune con muri tagliati in due che mostrano l’interno delle case. All’interno la chiesetta è decorata con dei festoni di carta e in fondo, dentro una teca, c’è una Virgencita alta come una bambina, vestita di tutto punto con abiti pieni di ruches colorate e fiori di plastica.
Inizia la parte centrale dello spettacolo, ci disponiamo sulle panche della chiesa e loro tutte in semicerchio davanti a noi, sedute o in piedi ai lati della stanza. Qualcuno suona “Il Condor passa” e sembra di vederlo, sopra le nostre teste, indifferente a tutto. Tutti gli attori fanno i suoni degli animali e dell’ambientazione, man mano capiamo che raccontano le loro storie, il loro arrivo alla favela, la loro infanzia, il distacco dalle famiglie e dalle terre originarie ma anche la storia del laboratorio teatrale che hanno fatto, romanzando un viaggio che decidono di andare a fare tutti insieme per riportare una di loro dalla madre che non vede da 40 anni. Si perdono nel deserto, restano senz’acqua, qualcuna torna indietro, ognuna di loro ha il suo momento di racconto e tutte, nessuna esclusa, ripercorrono il viaggio interiore che le ha portate qui. La protagonista della storia è una donna con lunghe trecce nere, pochi denti e una comunicativa incredibile che tornerà dalla madre nelle alture andine per morire ed essere seppellita dalle sue compagne. Accanto a lei una signora di mezza età, filiforme, riccia e bionda con gli occhi azzurri, di origini est europee, accompagna il racconto mentre accenna passi di danza sognando, come da bambina, il Teatro Colòn. C’è qualcun altro che canta “Un mazzolin di fiori” e dice frasi in romagnolo ricordando i genitori immigrati italiani, chi invece è stato sgomberato due volte dai militari ed ha sempre ricostruito la sua casa qui.
Viaggiano, queste donne, c’è sempre un luogo da dove vengono e un altro dove vogliono andare. Parlano come se nessuno mai gli avesse chiesto di farlo, con decisione ma con anche un leggero pudore, senza commiserazione, senza il patetismo del dilettante. Sono là, con la loro storia. Nessuno gliel’aveva mai chiesta prima e la loro vita finora si è semplicemente intrecciata a migliaia di altri fili che, precariamente ma con la solidità del caos che ordina il mondo, formano la rete di relazioni della Villa e anche il suo skyline, fatto di cubi di cemento casuali, sovrapposti, tenuti insieme da scale a chiocciola, assi, cavi, pali, grate e mattoni, dove la gente vive, innominata e ignorata, ai piedi della grande Buenos Aires dei grattacieli.
Tentativi e privilegi
La nostra posizione è di assoluto privilegio dato che, come diceva il famoso sacerdote Padre Mugica prima di essere ammazzato e diventare un mito da queste parti, noi tra qualche ora ce ne andremo mentre loro no. Eppure la generosità, l’onestà del racconto e la forza delle suggestioni commuovono tutti, giornalisti e non, e alla fine della performance ci sono abbracci, mate e biscotti. Camminiamo ancora nelle strade fangose tra la gente che ci guarda, torme di cani che ci seguono, macchine e motorini che si fanno largo e una Madonna di plastica portata in processione davanti a noi. Sulle strade si affacciano kioscos, minuscoli locali al pianterreno che, dietro le aperture protette da pesanti grate di ferro, vendono di tutto, dai chewing gum alle patate alle ricariche telefoniche; dentro la “città nella città” c’è anche una scuola e il governo ha portato i cavi della connessione internet per dare impulso al processo di “urbanizzazione” delle villas. Normalizzarle, o almeno provarci.
Giorni dopo, quando chiedo a una signora se il terminal degli autobus extraurbani è molto distante da dove siamo – ovvero ferme ad un semaforo proprio sotto un grattacielo dall’altra parte della strada sulla quale affaccia la stazione di Retiro – mi risponde preoccupata: “Se proprio devi andarci, tieniti stretta la borsa e cammina veloce, senza fermarti mai, per nessun motivo, finché non sei dentro. Io attraverso qua e poi mi infilo in metro, mi dispiace ma non ti accompagno.” Dato che nello stesso isolato convivono stazione ferroviaria, metropolitana, terminal degli autobus extraurbani e Villa31, non mi sento di darle torto. Credo però che la strada che il governo dovrà fare è tanta se vuole che i cittadini si sentano davvero sentirsi sicuri passando davanti all’ingresso di uno dei più grandi barrios humildes del paese, ad oggi ancora una terra di nessuno abitata dai fantasmi di tutto il Sudamerica.
Per un rapido sguardo su questo e sugli altri spettacoli che abbiamo visto durante la prima settimana del Festival FIBA, watch the video!
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