Il coraggio di una generazione: Lo stato dell’arte al festival Dominio Pubblico di Roma

È impossibile, per una generazione di artisti nati tra gli anni Settanta e Ottanta, scindere fra poetiche artistiche e politiche culturali. Questo è il punto di partenza della mia riflessione dopo aver partecipato alla prima edizione romana (Spazio Rossellini, 30 giugno e 1^ luglio 2022) de Lo stato dell’arte (pagina ufficiale), progetto del Tavolo delle Idee di C.Re.S.Co., ospiti del festival Dominio Pubblico.

Lo stato dell’arte a Campsirago 2019

Il rapporto con il sistema, connesso con la questione del pubblico e della distribuzione, emerge sin dal primissimo intervento di Michele Altamura di Vico Quarto Mazzini, a proposito del loro ultimo spettacolo che debutterà a Romaeuropa nel 2023: «Nel settembre 2021 alla cerimonia di consegna del Premio Hystrio abbiamo scritto un testo, spinti dal fatto che eravamo stati premiati come compagnia “emergente”, anche se sono dieci anni che facciamo teatro. Volevamo raccontare che ogni volta che facciamo uno spettacolo, potrebbe essere l’ultimo. Quella lettera voleva anche dire alle realtà istituzionali: “Conosciamoci!”. Da questa lettera è partita l’idea che ha portato al nostro nuovo spettacolo. Si tratterà dell’adattamento teatrale del romanzo La ferocia di Nicola Lagioia, un ritratto di famiglia con figlia morta, una storia di ascesa e crollo. Con questo progetto intendiamo ribaltare il concetto di distribuzione. Intercettando nuovi pubblici, partendo dalla messa in scena e dalla letteratura».

Subito l’incontro diventa dibattito, la questione politica emerge chiarissima nell’intervento di Tamara Bartolini: «Non ho nessun nuovo progetto, non voglio fare più nulla, le condizioni lavorative sono insostenibili. Per me la triennalità della ricerca è un momento di panico. Dobbiamo fare un debutto continuo. Ogni debutto è morto, sta chiuso nel baule senza accedere ad altri pubblici.»

Carlo Massari di C&C Company apre la questione della libertà artistica connessa alla politica: «Right, una rielaborazione della Sagra della Primavera ma anche uno spettacolo sulla scelta di abortire e di fare del proprio corpo ciò che si vuole, è stato messo in discussione dal sistema e criticato per le forti tematiche affrontate e le modalità di esposizione scenica.» Ad oggi, molti degli operatori del sistema danza si mostrano incapaci nell’esporsi e programmarlo con coraggio perché “soprattutto in questo periodo storico, il pubblico della danza va rassicurato” gli è stato detto da uno di questi.

La questione politica si intreccia a quella del linguaggio. Ancora Massari: «Vengo dalla danza, ma mi sento un creatore, un performer, vivo le etichette come un limite e credo nella mescolanza dei linguaggi. Fino al 2016 lavoravo quasi soltanto all’estero. In un mio vecchio spettacolo, Tristissimo, indossavamo parrucche fatte di stoppa, che puzzavano (in teatro ci evitavano). Qualcuno apostrofò: “Ma perché dovete aggiungere materiali? ma non potete danzare?” Da lì mi si è aperto un mondo. Quattro anni fa a Bologna ho aperto una scuola internazionale di formazione “Anfibia”, che lavora sul multidisciplinare. Tutte le persone che frequentano la scuola influenzano la mia poetica».

Anche Annarita Colucci de Illoco Teatro affronta la questione nel suo intervento iniziale: «La nostra è sempre una scrittura sul rapporto attore/oggetto, vogliamo dare una dignità drammaturgica a quel rapporto. Per questi motivi abbiamo fatto domanda al MiC come compagnia di teatro di figura e di immagine, anche se non disdegniamo la sperimentazione e l’ibridazione con ad esempio la prosa e con il teatro d’attore».

Lo stato dell’arte allo Spazio Rossellini di Roma per Dominio Pubblico – giorno 1

Isabella Di Cola, direttrice artistica di ATCL e “testimone interessata” di questa edizione dello Stato dell’Arte, termina il primo giro: «Voi artisti siete pieni di ganasce alla vostra libertà. Siete strozzati. L’etnografia della memoria de Illoco Teatro e di C&C è una lente messa su un presente disintegrato. Siamo tutti persi tra le macerie, dobbiamo trovare pezzetti di realtà e ricucirli insieme. Siamo in uno spazio grigio di espressività, in un presente confuso. Vedo troppa sofferenza e muri di incomunicabilità».

Francesca D’Ippolito, presidente Cresco, rilancia gli argomenti venuti fuori da un incontro internazionale sulle residenze a Mondaino appena concluso: si è parlato di “processo” connesso alla “paura” e al “fallimento” (mentre il “prodotto” è “happy”, felicità?): «Quando fallisco? mi ha chiesto sul treno una collega».

Massari inizia il giro: «Per me fallimento è il non raggiungimento del pubblico. Se sfugge qualcosa nell’atto della comunicazione, ho fallito. Significa che il mio esperanto deve essere migliorato, ma il fallimento è anche un rilancio. E non m’interessano gli operatori, il giudizio, la tournée, nel fallimento».

Colucci interviene: «Paradossalmente, per me fallimento è fare qualcosa che mi piace, se potessi mi occuperei solo del processo. Per questo per me le residenze sono “happy”. Otto ore in sala? che meraviglia! Il prodotto finale non deve fare paura, anche se spesso è così».

Nel dibattito si inserisce Katia Caselli di Spazio Rossellini, ammonendo: «Attenzione: il pubblico non accetta il fallimento. Bisogna tener conto delle sensibilità. Come possiamo proporre un processo?»

Massari le risponde: «Il pubblico sarebbe disposto al fallimento se il teatro fosse visto come una forma di nutrimento. Negli ultimi anni c’è stato il crollo degli abbonamenti in molti teatri. Non siamo più visti come se fossimo cuochi o camerieri di un ristorante. Il nostro ristorante è chiuso o è una vecchia pensione. Anche se noi innoviamo continuamente».

Annarita Colucci a Lo stato dell’arte – giorno 2

Anche Michele Baronio dice la sua: «“Il fallimento per me non è contemplato nella misura in cui rimango onesto nella mia ricerca. Più che dell’esposizione del processo mi interessa, in questo senso, la poetica che si esprime. La paura nell’esposizione penso sia figlia del nostro senso di colpa rispetto all’allontanamento dalla poetica stessa. Le residenze che sono state anche per noi una grande occasione di crescita andrebbero adeguate da un punto di vista economico al tempo che occupano e che gioco forza tolgono al quotidiano sostentamento costruito nel luogo in cui si vive. Ad esempio, nel periodo delle residenze ho dovuto chiudere il mio laboratorio di falegnameria, che da un lato era il luogo dove creavo le scene degli spettacoli e dall’altro contribuiva alla sopravvivenza, perché siamo stati fuori un anno.”»

Colucci è d’accordo: «La residenza è comunque un investimento produttivo».

Interviene Tamara Bartolini: «Per me il fallimento è non aver incontrato altre persone. Non aver fatto tournée».

Di Cola conclude anche queste secondo giro: «L’errore e il fallimento sono una forma di resistenza e di ricerca di qualcosa di profondo, che a che fare con la relazione. Per questo, durante una residenza lo spazio e il territorio possono entrare nel processo solo se lo si decide».

Dopo “sistema” e “paura/fallimento”, il concetto che conclude questo tris è sicuramente, a parer mio ma anche dei protagonisti del dibattito, quello di “coraggio”. Ci vuole coraggio per affrontare la paura.

Debora di Dominio Pubblico a Lo stato dell’arte – giorno 2

Il coraggio di “piegare i classici alle istanze del presente che brucia”, di “stare nella prosa” di Vico Quarto Mazzini, come sottolinea Paolocà: «Cerchiamo da sempre di riavvicinare il “teatro drammatico al presente”, guardandosi attorno. Portare avanti una tradizione senza sentirsi in imbarazzo. Cerchiamo di non fare spettacoli accomodanti perché nei teatri c’è troppo intrattenimento. E anche gli spazi del contemporaneo sono una specie di zona di comfort, sia per il pubblico che per gli artisti. Si tratta spesso di una “complicità al ribasso”. Con La ferocia vorrei mettere in scena uno spettacolo non rassicurante».

Gli fa eco Altamura: «Come scrive Ostermeier, il racconto per frammenti del teatro postdrammatico, dove raccontiamo come siamo distrutti, lacerati, al sistema capitalista non crea nessun tipo di problema. Una narrazione crea qualche problema in più».

Il coraggio dell’innamoramento, miccia per tutti gli spettacoli di “teatro della nostalgia” de Illoco Teatro, come ci racconta  Colucci: «Stiamo lavorando a due progetti che nascono quasi insieme. Si tratta sempre di percorsi che nascono da innamoramenti. Entriamo sempre in simbiosi con un oggetto, che può essere gigante oppure minuscolo. Il nostro nuovo spettacolo debutta ad agosto e si chiama “Catch me – La casa di Ennio”. Abbiamo comprato un baule al mercatino, dentro c’era una storia. Lo spettacolo è questa storia, i temi che affrontiamo sono quelli della morte, della perdita, dell’eredità. È uno spettacolo sui sogni di Ennio. Il nostro secondo progetto, ancora in divenire, parte dall’innamoramento per il libro L’anima smarrita di Olga Tokarczuk».

Il coraggio di lavorare su “una triennalità” come ci racconta Carlo Massari: «La mia progettualità non si ferma all’arco di produzione ma è un’elaborazione di una macro-area di ricerca tematica. A me non interessa fare danza tanto per danzare, per me danza è un linguaggio della comunicazione e come tale utile per parlare di urgenti tematiche sociali contemporanee. Vengo dal teatro e lavoro come interprete con una compagnia belga. In Belgio non c’è distinzione tra teatro e danza, si parla genericamente di performance. Nel teatro italiano ci sono stati dei momenti di forte rottura, da Pasolini a Latella. Nella danza ancora no».
E continua: «Nel nostro mercato, non c’è più possibilità di rischio, non c’è permesso un errore, un inciampo. Per me è fondamentale un triennio di progettualità per affrontare verticalmente una tematica ed espanderla nelle sue molteplici forme.

Il coraggio di lavorare sempre sulle proprie biografie, mettendosi a nudo ogni volta come fa Bartolini/Baronio e ci ricorda Tamara Bartolini: «La nostra pratica è sempre la traduzione scenica della nostra biografia. La nostra ricerca degli ultimi anni parte della questione dell’abitare, che è qualcosa che ci brucia dentro. Abbiamo cominciato nel 2015, quando iniziava la sensazione di vivere tra le rovine della società e del teatro. A questa sensazione si univa, la grande gioia per la nascita di nostra figlia. C’era un romanzo che avevamo in testa come un tarlo, si trattava di Correzione di Thomas Bernhard. Il protagonista costruisce una casa nel bosco a forma di cono per proteggere la sorella, che però muore e lui si uccide. E noi? Come continuiamo a fare teatro? Ad abitare la scena? Da queste domande nasce lo spettacolo Dove tutto è stato preso che si nutre del romanzo e della nostra biografia, che è da sempre la nostra poetica. Tutte le nostre creazioni nascono dal contatto con gli altri, attraverso le storie che incontriamo e i ragionamenti che facciamo».

Il secondo giorno si apre con un saluto del direttore artistico Tiziano Panici, che ci spiega i perché di questo Stato dell’Arte romano: «Finalmente, dopo quattro anni, abbiamo organizzato il primo Stato dell’Arte a Roma, questo testimonia una certa assenza della scena romana dal pensiero e dal confronto nazionale. Roma soffre di movimenti febbrili, lo testimonia l’implosione dell’antenna romana di Cresco avvenuta nel periodo del Teatro Valle Occupato». Sulla specificità del progetto Dominio Pubblico, dedicato alla creatività under 25, aggiunge: «Mi interessava l’incontro tra due generazioni, la vostra e quella dei giovani di Dominio Pubblico».

Tamara Bartolini, Isabella Di Cola, Michele Altamura, Francesca D’Ippolito e Tiziano Panici a Lo stato dell’arte – giorno 2

Sempre sull’asse dato dalle parole “sistema”, “paura” e “coraggio” gli artisti hanno l’occasione di scendere ancor più nel dettaglio dei loro progetti.

Debutta Massari, che fa emergere l’anima ambientalista della sua ricerca: «Il mio nuovo percorso avrà a che fare con la Metamorfosi in ogni sua accezione. Di solito il primo anno lavoro da solo. Larva, Blatta, Sapiens saranno i tre titoli affrontati. Il primo quadro è abbastanza chiaro, l’abbiamo presentato al festival Attraversamenti Multipli. Il soggetto è l’allevamento intensivo, c’è un danzatore “in batteria”. C’è una voce iniziale commerciale legata ai numeri della macellazione, che si traduce con una serie di cadute al suolo. Nella seconda parte c’è un danzatore sintetico, con una felpa disegnata con la carne di un animale indefinito. L’ultimo passaggio di questo spettacolo è pronunciare la parola “mamma”. Questo atto simbolico significa per me pretendere che l’animale che mangio abbia vissuto una vita degna».

Massari poi ci anticipa come si sta evolvendo il lavoro: «Il secondo passaggio del progetto Metamorfosi ha a che fare con l’aridità. “Hai anticipato un argomento”: mi hanno detto. Il lockdown è stato un tempo per riflettere su un’aridità fisica e di senso, umana, perché non si sa più come relazionarsi con l’altro. Qualche tempo fa ho avuto un incontro drammaticamente meraviglioso con una guida ambientale. Abbiamo fatto una camminata in un bosco. Mi ha fatto vedere le querce che stavano morendo. “Questo è il futuro – mi ha detto – ed è il tuo progetto”. Perché la quercia è un albero sentinella, se muore una quercia è un pessimo segnale per l’ambiente. Sul terzo capitolo, sono in dubbio. Le blatte sono animali molto resistenti, hanno una grande capacità di sopravvivenza. Asfalto potrebbe essere un altro titolo. Sono titoli scelti come fasi evolutive del progetto. Mi prendo sempre un tempo abbastanza lungo di ricerca e improvvisazione. Non lavoro per quadri ma attraverso un “effetto lasagna”: la stratificazione delle mie visioni ed esperienze. In questa triennalità i partner che mi accompagnano sono Teatro Akropolis, Teatri di Vetro, i festival Oriente/Occidente e Attraversamenti Multipli. Sono partner “di senso”, di spazi, incontro, confronto. Sono luoghi a me familiari».

Gabriele Paolocà a Lo stato dell’arte – giorno 2

Colucci approfondisce il rapporto attore/pupazzo/oggetto tipico della poetica de Illoco Teatro, che nel caso del prossimo spettacolo L’anima smarrita si arricchisce (forse) di un elemento in più: «Da sempre sono molto vicina ai pupazzi e alle figure anche se non le ho mai costruite. Nella nostra idea iniziale per il nuovo spettacolo, un pupazzo e un attore diventano un uomo e la sua anima. Il protagonista del libro perde l’anima, il dottore dice che deve aspettare che torni. L’anima lo cerca e alla fine lo raggiunge. Ma poi, durante un recente laboratorio è spuntata una lavagna luminosa ed è stato un altro innamoramento, anche se la presenza dell’attore è imprescindibile per il nostro teatro. Al momento ci sembra molto difficile il rapporto con la lavagna, perché l’atto del disegnare ha tempi lunghi. In questo prossimo spettacolo vogliamo affrontare il tema del “diventare grandi”, che investe tutta la mia generazione. Per farlo è necessario un allontanamento dai nostri luoghi abituali. Durante la prima residenza abbiamo lavorato in uno spazio vuoto, c’era solo la lavagna. Aiuto! Il disegno ci ha aiutato nell’individuare la bambina».

Il racconto prosegue addentrandosi nei dettagli: «Le nostre anime sono generi che non ci appartengono. Siamo partiti dalla lavagna, ma ci immaginiamo una doppia scena: il luogo del sarto e quello dell’anima. La sartoria sarà il primo luogo. Immaginiamo un filo da legare, da tagliare per cucirsi un abito addosso. Lui costruirà un cappotto per lei, che le starà molto grande perché lui non sa che lo sta costruendo per lei. Sul secondo luogo, quello dell’anima, abbiamo ancora le idee poco chiare. Sarà il luogo dell’infanzia? Il luogo dello scarto? Probabilmente la lavagna luminosa andrà via. Sicuramente non ci sarà testo, stiamo costruendo una drammaturgia senza parole, per provare una distribuzione internazionale.

Paolocà affronta le questioni di partenza dell’operazione che porterà a La ferocia: «Abbiamo sempre affrontato i classici reinterpretandoli, creando drammaturgie originali. Con La ferocia si apre un nuovo capitolo: dov’è la tragedia nel contemporaneo? Perché non si riesce a raccontare il presente? Perché le drammaturgie cercano sempre di girare intorno al presente? La letteratura, al contrario del teatro, ci ha provato e ci sta riuscendo con risultati positivi. La ferocia ci sembra una specie di Pastorale americana dei giorni nostri, un grande affresco familiare».

E poi prosegue sulla drammaturgia: «Ci stiamo appropriando di un testo? È la prima volta che non abbiamo scritto noi il testo che metteremo in scena. Anche se nella nostra testa lo abbiamo fatto. Il nostro sogno è fare uno spettacolo che possa darci da mangiare per quattro anni. Noi vediamo ne La ferocia l’immagine di questo periodo turbo capitalista: una famiglia che crolla messa di fronte allo stile di vita contemporaneo. La figlia finisce in un gioco di sesso con uomini potenti, il padre imprenditore tiene sotto scacco questi uomini. Sono da sempre i temi esistenzialisti quelli cari a Vico Quarto Mazzini. Il rapporto con la morte è uno di questi. Di solito, nei nostri spettacoli c’è sempre un oggetto che diventa metafora. Stiamo cercando un oggetto da cui partire. Poi c’è il rapporto con la natura: la ferocia è quella parte emotiva che connette uomo e animale. Il mondo animale ci osserva, l’etologia può essere la scienza per spiegare i comportamenti umani».

E conclude: «Il romanzo è ambientato in Puglia: dobbiamo avere una lente sul territorio? Noi vogliamo fare uno spettacolo che abbia un respiro nazionale. Vogliamo parlare di sud per raccontare il Paese. Non vogliamo che diventi una storiella. Deve essere accattivante anche per l’estero. La drammaturgia sarà affidata a Linda Dalisi. Con lei stiamo affrontando alcune questioni drammaturgiche fondamentali legate ai personaggi e alla cronologia. Quello che sappiamo al momento è che avremo bisogno di 7/8 attori e che sarà una coproduzione Gli Scarti, Teatro Nazionale di Genova, LAC Lugano e Teatri di Bari».

Carlo Massari e Michele Baronio a Lo stato dell’arte – giorno 2

Bartolini e Baronio fanno il punto sul progetto: «Siamo in chiusura di un percorso che esce dal teatro e che si chiama 6900 km. Con la vittoria del Bando Boarding Pass abbiamo portato a New York i nostri “Esercizi sull’abitare” (blog). Non si tratta di uno spettacolo, ma di una progettualità che parte da una domanda: Che cos’è casa per te? Dopo Roma e il Lazio siamo andati ad ascoltare le storie oltreoceano. Il prodotto finale debutterà il 26 settembre a Romaeuropa. Sarà un diario che ricucirà le tappe precedenti».

Venendo al lavoro degli ultimi giorni, ci raccontano: «In questo momento stiamo montando il girato, che è una cosa non nuovissima per noi. Invece l’oggetto film è una cosa nuova. Questa terza tappa di New York è stata il processo, la possibilità di portare la nostra ricerca fuori, lontano, per un tempo lungo. Stiamo declinando la nostra metodologia di lavoro all’oggetto film. Si tratta di un lavoro quasi drammaturgico. Stiamo mixando paesaggi e interviste. Ci stiamo interrogando se mostrare noi stessi nel montaggio, anche se non abbiamo lavorato in quel senso. La proiezione sarà accompagnata da una probabile relazione. Si tratterà di una sonorizzazione, di un accompagnamento della visione. Ci sarà anche la presenza di un’orchestra nata in seno al centro MaTeMù con cui abbiamo collaborato. L’opera video avrà anche una sua autonomia. In questa intensa fase di sbobinamento, sono sempre le stesse domande che si sono aperte. In questa terza tappa sarà fondamentale la questione dell’identità. Abitare deve corrispondere alla propria libera identità. A New York abbiamo conosciuto la questione dell’afrodiscendenza italiana. Paradossalmente, alcuni degli intervistati hanno trovato a New York il riconoscimento di essere italiano, anche nel proprio progetto di vita. Inoltre c’è una linea che riguarda le strade artistiche di alcuni di loro. Oltre alla fatica a trovare casa in Italia».

Isabella Di Cola, chiude il cerchio ancora una volta: «In questo incontro ho sentito un’assonanza tra di voi, che è l’ostinata voglia di andare fino in fondo. Per far emergere la profondità della vostra anima e la necessaria relazione con l’ambiente che ci circonda. È fondamentale restare in contatto, perché si tratta di un’assonanza che mi rassicura e mi dà fiducia».

L’ultima immagine è quella che ci hanno regalato in chiusura Bartolini e Baronio: «Tra i molti incontri che abbiamo fatto negli Stati Uniti, ce n’è stato uno molto forte con Virna, una transessuale italiana. Il tempo con lei non c’è bastato, abbiamo avuto il desiderio di continuare il dialogo. Da qui potrebbe nascere forse in un lavoro per la scena. Virna ci ha raccontato che in Italia non c’è una legislatura per i trans. “Dovrei andare davanti a un giudice che decide se la mia transizione è abbastanza femminile”, ci ha raccontato. “L’unica casa libera è la mia capoccia”, ha commentato». Il coraggio di Virna di trovare casa altrove per provare ad avere un po’ di serenità interiore è quello che serve a tutti noi. È l’unica via di scampo a questo presente.

Simone Pacini

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novembre, 2024

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