L’utopia di Fo: dalla Cina con sberleffo e poesia

“Storia di Qu”, ultima fatica – a due mani – di Franca Rame e Dario Fo è rimasto per pochi giorni in scena, settimana scorsa. Che il testo fosse ben scritto lo si dava un po’ per scontato – né dubbio alcuno rispetto alla messa in scena, la cui regia è stata affidata a Massimo Navone – direttore della Paolo Grassi, che, insieme a quella del Piccolo Teatro, resta una delle massime accademie per la formazione attorale milanese.

Massimo Navone e Dario Fo
Massimo Navone e Dario Fo

Non è certo facile orchestrare – e poi dirigere – una partitura, che vede coinvolti una trentina – fra attori, musicisti, danzatori e acrobati. In realtà molti di più, stante il ‘doppio cast’, italiano e americano, che si è alternato, rendendo fruibile lo spettacolo anche a livello internazionale – un po’ in concomitanza con EXPO 2015, ma seguendo quella che, da qualche anno, è oramai una precisa vocazione del Piccolo. Già detta così, ci restituisce la cifra dell’immaginario festoso – e forse un po’ anarchico – del Premio Nobel, che molti di noi ricordano per le surreali e irriverenti performans in rigorosa dolcevita nera, negli anni “70, o nelle più recenti chiacchierate a tema – sempre un po’ sul filo del boccacesco -, giocate tra sacro e profano. E poi “Mistero Buffo”, dove, sempre in un’ottica di contaminazione e passaggio del testimone alle nuove generazioni, si mescolano colto e popolare, divertito ma con una qual certa arguzia, intrattenimento, per un certo aspetto, ma senza rinunciare a riflessioni, amare, talvolta, e fin feroci, sul potere, ma anche sulla insanabile eppure meravigliosa miseria umana. Ed è probabilmente questo, che ci si attende entrando al Piccolo Teatro Studio, un gioiellino a pianta circolare quanto mai adatto, con la sua struttura a cannocchiale, a zummare su una storia come questa. Le atmosfere sono quelle lontane e patinate di onirico, che rimandano a una Cina quasi fiabesca – e che siamo portati a pensare forse ancor più distante di quanto non sia. La storia di Qu, infatti, è stata organizzata e scritta, per la prima volta, da quel Lu Xun, drammaturgo e filosofo, che si prodigò per la diffusione del cinese semplificato, fra l’altro – oltre che per l’utilizzo del teatro come strumento politico di alfabetizzazione. Siamo agli inizi del “900, eppure, complici anche le belle scenografie artigianali ed i costumi degli allievi di Brera, sospesi fra la sontuosità dell’apparato militare, la frugalità del popolo e l’eccentricità della moglie/concubina – che sfoggia talvolta mises, che rasentano il futuribile -, sembra di essere in un tempo assai più lontano: onirico, in fondo, e surreale. Ed è in questo tempo-non-tempo – in un luogo, che sembra essere quasi un regione dell’anima -, che si svolge la curiosa storia di questa sorta di “Arlecchino cinese” – non a caso quel nomignolo: Randazzo… -, un bonario perdigiorno, che per burla e puro amor di provocazione si trova invischiato in una dinamica di potere più grande di lui. O forse no: dato che è proprio questo gioco degli equivoci, che lo porta a esporsi, crescere, misurasi con sé, facendo riaffiorare quel passato di alfabetizzazione forzata, che, da subita, si rivela vocazionale, quasi – intuendo la potenzialità sovversiva della presa di coscienza delle masse contro l’oscurantismo del potere precostituito. Storia di Qu_omaggioSe la gioca bene, Michele Bottini, a dar vita ad un Qu/alter ego del giullare Fo. L’accento smaccatamente milanese, la gestualità accentuata e sempre un po’ stralunata  non possono non arrivare come sentito omaggio al maestro – quasi un modo per renderlo partecipe di quella coralità, a cui ha saputo dar vita. Accanto a questa fortuita Scimmia Rossa – curiosa e vivace, come tutte le scimmie -, gli altri personaggi sono tratteggiati con toni comici quasi alla cartoon – il Governatore, un bravo Graziano Siressi poliedrico e divertente; la Concubina, Veronica Franzosi, non meno attenta e precisa nel modulare l’equilibrio fra caricaturale e grottesco. Sempre sul crinale del farsesco, invece, il Generale – Enrico Pittaluga -, dalla grottesca pomposità buccia di banana del macchiettistico. E’ forse per evitare questo tabù che Simone Coppo, il Narratore, imposta una modalità distaccata – sarebbe stato un attimo scivolare nel prototipo del cinesino saggio alla TNT -, pur senza poter assumersi in toto una solennità forse poco adatta a questo registro da commedia dell’arte. Altri personaggi focali, all’interno di questa coreografia di professionalità variegate, che danno anima e corpo al popolo – anche nelle varianti dei carcerati così come pure dei carcerieri o, ancora, dei ribelli -, sono Marta Lunetta, e cioé Luna, la donna emancipata – vista per un attimo da Qu e amata per sempre, secondo un canovaccio, che sa tanto di Dolce Stil Novo -, Luca D’Addino, il capo dei monaci e Daniele Nutolo nel doppio ruolo di capo contadino e primo carcerato. Tutti professionisti: di certo; e, però, a giocare ruoli non solo inevitabilmente smorzaati dalla compresenza di tanti attori in scena, ma, in fondo, drammaturgicamente abbozzati – come da chi sia più interessato a farne agire la maschera, che a indagarne la psicologia individuale.

Storia di Qu_microfono
In fondo è un po’ questa, la sensazione: una gran carnevalata ambientata, non a caso, l’ultimo giorno di questa ricorrenza dal simbolismo sovversivo forte – specie nella tradizione teatrale. Quel “semel in anno”, in cui “licet insanire”, che spiega bene la baldanza del popolo, l’opportunismo dei rivoltosi nello strumentalizzarlo e, non meno, la bonarietà propagandistica del potere precostituito. Quanto la dice lunga, l’uso dei microfoni – oggetto quasi avanguardistico, in questo mondo sospeso e surreale -, con cui i ‘democratici’ si approcciano al popolo e rendono mediatico il sommario processo del capro espiatorio: “Colpirne uno per educarne cento”, sembra riecheggiare nelle furbesche logiche del diabolico terzetto al potere.  E ci sta che in questo tempo extra ordinario si possa parlare di utopia – specie se chi lo fa è un Arlecchino innamorato, che attraverso questo sentimento e il riconoscimento e la dignità, che gli restituiscono, scopre la bellezza delle parole e del mondo. Fa bene al cuore anche il modo naif di spiegare cosa sia il socialismo comunitario – attraverso la metafora del cucchiaio di zuppa – o il finale ‘contro ogni ragionevolezza’, ma perfettamente in linea con l’ideale un po’ romantico di Qu, secondo cui l’utopia è per sua natura quel che non può essere realizzato, ma, proprio per questo, poi gli utopici lo perseguono. Certo il dubbio è che, come del molto sfiorato – dalle strategie di potere alla demonizzazione dell’ideologia a vantaggio invece di un’utopia più a misura d’uomo – ce ne si porti a casa poco più che un pur a tratti arguto divertissement, così nella pur studiata ed inventiva messa in scena, si avverte la mancanza di  quella spregiudicatezza, che avrebbe dato un altro ritmo – forse accompagnando il composto pubblico a quegli applausi, di cui si è sentita la mancanza, in itinere, di fronte allo snocciolare di drammaturgici virtuosismi di pensiero, che sono scivolati via nel rimpianto di chi invece li ha visti balenare, ma non deflagrare.

Piccolo Teatro Studio Melato
dal 30 giugno al 5 luglio 2015

“STORIA DI QU”

di Dario Fo e Franca Rame

ispirato a “Ah Q”, un racconto di Lu Xun (1881 – 1936)
traduzione a cura di Franca Rame e Giselda Palumbo
regia Massimo Navone
assistenti alla regia Alice Lutrario, Manuel Renga, Linda Riccardi
con Michele Bottini nel ruolo di Qu
e con Simone Coppo narratore, Graziano Sirressi governatore, Enrico Pittaluga generale, Veronica Franzosi concubina, Marta Lunetta luna, Luca D’Addino capo dei monaci, Daniele Nutolo boss del carcere
contadini, monaci, carcerati e guardie Elena Boillat, Vito Carretta, Lorenzo Covello, Laura Dondi, Erika Marino, Caterina Marzorati, Nazzareno Patruno, Betti Rollo, Gabriele Valerio
Clara Storti ​monaco volante
musicisti
Giulia Bertasi (fisarmonica), Roberto Dibitonto (sassofono), Francesco Marchetti (contrabbasso), Edoardo Ponzi (percussioni)

Francesca Romana Lino

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novembre, 2024

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