Se c’è una cosa che certo non manca, nella multietnica Milano, è la ricchissima offerta di proposte teatrali. Nonostante le distanze della metropoli, a organizzarsi bene, in una mezza giornata domenicale se ne riescono a infilare addirittura tre. Così, domenica 18 febbraio 2018, mentre in via Paolo Sarpi la comunità cinese festeggiava l’entrata nell’Anno del Cane, la mia tabella di marcia prevedeva: ora 16 “Fantine” al Teatro Libero, ore 19 “Partiture Futuriste” allo Spazio Scimmie Nude, ore 20.45 “Stratr*ia” al Teatro della Contraddizione; tre realtà teatrali dalla caratura/pubblici differenti, che ben restituiscono la vivacità di una città, che se può avvalersi di eccellenze assolute quali il Piccolo Teatro di Milano – ricordiamolo, il primo Teatro Stabile italiano -, non per questo rinuncia a esplorare il luogo e i loci del teatro, declinandoli in tutte le sue varianti.
“Fantine”, progetto e regia di Michele Mariniello, è un prodotto ben collocato in un teatro che, come il Libero di Milano, intenda fare della drammaturgia contemporanea il suo fiore all’occhiello; a differenza del Teatro Filodrammatici, ad esempio, che, giocando sul motto tradizione e tradimenti, si pone come Shakespeare free – del Bardo, infatti, intende portare avanti lo spirito, ma cercandolo e inverandolo in una scrittura contemporanea anche internazionale -, il teatro di via Savona sceglie invece di mantenersi più fedele a quella logica partecipazionista, che lo ha portato a volere un collettivo di piccole compagnie addirittura come anima guida e ossatura pulsante nella gestione delle stagioni, che non rinunciano, a ospitare altri artisti. È il caso di questa produzione de Il Servomuto Teatro, che dal colosso di Victor Hugo estrapola elementi nevralgici, scelti ed essenziali, ricomponendoli in uno spettacolo dall’efficacia sorprendente, considerata anche la giovane età dell’ideatore e regista e della bravissima attrice Sara Drago, diplomati all’Accademia dei Filodrammatici solo qualche biennio fa. L’assonanza è quella con la Fantine dei “Miserabili”, che, in punto di morte, vede scorrersi la vita davanti. Come in un film. Ed ecco che è del tutto giustificato l’uso degli inserti di girato. Mentre scorrono tremule le immagini in bianco e nero dell’eterea figura femminile su una spiaggia non-luogo del suo imminente trapasso, ma intanto luogo, su cui indugiare e porsi le domande essenziali dell’esistenza, una voce fuori campo ci accompagna all’indietro verso i suoi primi ricordi: lei scolaretta all’interno della chiassosa convivenza nei palazzi popolari di una periferia tanto estrema, quanto variegata e colorita, la storia d’amore dei genitori sulle note di una “Felicità”, che, da “un bicchiere di vino ed un panino” precipiterà verso la crisi di mezz’età della madre fino a farla scappare in Belize con un ballerino di salsa, sprofondando il padre in un baratro tanto profondo, da rendere la figlia di fatto un essere non così lontano dagli orfani di Hugo. Ce la racconta bene, Mariniello, evocando situazioni narrative e avvalendosi di un giusto mix linguistico fatto di slang, provocazione e ironia, di colori e di un ritmo, che, nei momenti salienti spontaneamente sfocia in un sincopato dalla rima a volte ardita, fino ad esplodere in un azzeccatissimo rap, idioma quanto mai appropriato per respirare quel Sitz-im-Leben. E ce lo restituisce in modo mirabile la Drago, la cui mimica, prossemica, tensione, modulazione vocale e capacità recitativa, con gli stessi candore e naturalezza quanto mai ipnotici della drammaturgia, ci accompagnano in un inferno, che suscita più simpatia e misericordia che condanna. Un mondo fatto da esseri grotteschi e caricaturali, comparse, anche nei ruoli socialmente più di spicco, di quello che sembra essere il vero protagonista: il Destino. Già, perché è importante salire sul palco avendo qualcosa da dire. Non si tratta di usare il teatro in senso propagandistico – non è il proscenio, il luogo adibito ai proclami – o politico; ma poi sì, perché non può che essere ultimamente politico, quel teatro, che per sua stessa genesi nasce come luogo d’espressione della polis. E non importa che quest”idea sia qualcosa di complicatissimo e sbalorditivo; a volte basta anche solo un’evidenza intima e condivisa a tratteggiare quella linea di senso capace di trasformare in solo una delle opzioni quel beffardo figlio del Kaos, che gioca a mescolare le carte, perché forse non ama troppo le storie stucchevoli e a lieto fine, e che sembrerebbe non ammettere divinità al di sopra di sé come insegnava la pur citata teogonia classica. E così fra il “Bar Stardo” o l’oratorio, attualizzazioni del sempiterno dilemma fra Inferno e Paradiso, Bene e Male, sembra che possa esserci ancora un’altra opzione capace di sbeffeggiare il dio bendato.
Di proclami, invece – e di quelli con tutti i sacri crismi –, parla “Partiture Futuriste”, progetto e regia di Gaddo Bagnoli, in scena Claudia Franceschetti, Andrea Magnelli e Marco Olivieri, ovvero le Scimmie Nude, che, nelle “Domeniche di spettacolo” nel loro spazio/casa/atelier portano in scena 35 minuti di spettacolo più che sufficienti a saggiarne la cifra. Sono quindici anni, dacché fanno compagnia stabile. All’attivo spettacoli sia corali come “Pauraedesiderio”, prima parte della “Trilogia sull’Uomo”, vincitore, nel 2013, di Fêtes Internationales du Theatre (Canada), che monologhi come “Danza alla rovescia” (2013), omaggio ad Antonin Artaud portato in scena con modulata intensità da Claudia Franceschetti o “Cromosomie” (2015), in cui, fra il serio e il faceto, il versatile Andrea Magnelli impersona un ipotetico androgino alle prese con le variazioni sia del maschile che del femminile. Così queste Partiture, di fatto poco più che la declamazione del Manifesto Futurista poi rafforzata con la pantomima/burla del chiaro di luna, sottile satira del teatro romantico borghese, si conferma nuova occasione per mostrare il loro modo di fare teatro: fisico, rigoroso, grottesco, ma poi anche comico e, soprattutto, curato. Perché i dettagli sono importanti. Già l’impatto visivo conta: ed è ragguardevole la cura anche di scene di Laboratorio BìU e costumi di Ilaria Parente per uno spettacolo al momento presentato solo nel proprio atelier. Ma Bagnoli è un perfezionista e sceglie di raccontare anche attraverso i segni: l’albero che campeggia in scena è uno scheletro bianco con bandierine/foglie Mondrian mood e i costumi ci raccontano un Marinetti che Magnelli carica con vis energica e sprezzante e con piglio duro e puro quanto basta ad un antesignano del Progresso in rottura col passato. Ecco perché i suoi co protagonisti sono resi quali una sorta di burattini, il riferimento visivo è ad arlecchini/colombine che strizzano l’occhio a una Commedia dell’Arte goldonianamente olezzante di stantio, ma anche a quella rigidità da burattini, che se non fa spuntar loro lunghi nasi a deturparne i visi, li rende a tutti gli effetti manichini, che a piacer suo questo Futuristico Vate posa e atteggia, sberleffa e redarguisce come chi sa di essere il Progresso che avanza contro a un tradizionale oramai in marcescenza. Eccola, ancora una volta, la valenza politica del teatro: quella stessa proprio oggi al debutto al Piccolo Teatro Grassi di Milano nel non a caso “Teatro Comico” di Goldoni secondo Roberto Latini. Ma quel che stupisce, ripetiamolo, oltre alla fluidamente credibile capacità, generosità e versatilità degli attori, è quell’attenzione per cui, nella lunga sequenza del chiaro di luna, il regista trasforma Magnelli/Marinetti in un divertente contrappunto e disappunto: ironico, sì, ma anche coro eppure non la perde mai, quella valenza di deus ex machina, il cui soffio, non a caso, muove e pilota i burattini. Appollaiato, a fondo scena, fra le fronde stecchite dell’albero denaturalizzato, è lui, la testa strabuzzante come quella di un uccellaccio del malagurio, che continua ad essere il vero burattinaio e protagonista di quella satira, che il canone grottesco, sapientemente cavalcato dal duo Franceschetti/Olivieri, invera.
Ultima tappa della serata è al Teatro della Contraddizione, altro spazio dell’underground milanese gestito dall’ormai più che venticinquennale sodalizio artistico di Marco Maria Linzi, Sabrina Faroldi e Micaela Brignone, che instancabilmente portano in scena drammaturgie dalle visioni sfidanti ed anticonvenzionali. Ospiti dello scorso weekend-lungo Ortika, compagnia tutta al femminile, che in “Stratr*ia”, racconta la storia di “S” e della comunità che ne denuncia/compiange la scomparsa. In scena Alice Conti, attrice dalla caratura assolutamente in linea coi colleghi apprezzati quello stesso pomeriggio, a interpretare gli uomini che la (com)piangono: un generale in pensione, che la cerca come fosse sua figlia, viene detto, ma poi sentiamo tutto il risentimento paternalistico più che lo spirito paterno, nel suo enfatico discorso; Antonello, lo scemo del villaggio, amico quasi fraterno della ragazza, unico ammesso nel luogo segreto all’interno della serra, in cui attende alla schiusa delle crisalidi, ma che ci viene mostrato come una specie di sociopatico involuto e dal rapporto castrante con la madre e col professore; il macellaio, col suo lessico allusivo dalla valenza sessuale. Sono tutti fortemente caratterizzati e erotizzati, i ruoli maschili fra i quali la Conti si destreggia con assoluta maestria, cavalcando anche lei lo stilema del grottesco e dell’ironia grazie ad una prossemica ottimizzata da pochi, ma efficaci accessori e abiti di scena. Si parla di una ragazza, della scomparsa di un corpo femminile – negato, fino, appunto, alla sua rimozione fisica –, eppure sembra un mondo popolato da soli uomini – e dai loro sguardi variamente morbosi -, in cui le donne sono solo fantocci o voci fuori campo; e la stessa “S” compare solo attraverso i monitor, che ne moltiplicano l’immagine erotizzata forse dalle fantasie maschili o il suo corpo/oggetto del desiderio. Probabilmente sarebbe un’altra storia, a sentirla raccontare dalla sua voce, ma l’hanno messa a tacere non solo gli sguardi cosificanti della morbosità maschile, ma anche quelli fustiganti della comunità di donne-beghine, più simili ad arpie che a compagne di un femminile solidale e condiviso. Cosa resta, a S, mentre attraversa il bosco? Ecco, forse è un po’ questo, il punto: nonostante l’ottimo lavoro di narrazione/caratterizzazione della Conti, la scrittura di Chiara Zingariello resta criptica come per una sua intrinseca mancata chiarificazione d’intenti, pur nel preciso e visionario lavoro della regia (della stessa Colla). Peccato. Peccato perché anche qui ci troviamo di fronte a un teatro ben fatto, agito e pensato nelle soluzioni sceniche e registiche, nonostante mezzi di produzione, che certo non sono quelli degli stabili. Eppure sembra essere fragilità un po’ costitutiva anche di altri loro testi, quella di non riuscire a sincronizzare in modo sempre efficace gli intenti – politici, di denuncia – con i risultati, che, al di là di un lavoro curato e di una stratificazione di segni, non sempre riescono a veicolar in modo altrettanto leggibile l’oggetto del contendere.
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