L’assordante rumore d’acque di Teatro delle Albe

“Rumore di acque” del Teatro delle Albe è il secondo capitolo della trilogia “Ravenna-Mazzara del Vallo”. Nasce nel 2010 su invito del Ravenna Festival, che identifica nella compagnia ravennate e nel suo impegno con molte delle banlieue e dei luoghi periferici del mondo, l’interlocutore ideale. Gli affida il compito di raccontare dei rapporti fra le due sponde del mare nostrum. E quel che vien fuori è il trittico: “Cercatori di tracce da Sofocle” – esito festante di un laboratorio che Marco Martinelli e Alessandro Renda hanno guidato con una cinquantina di ragazzi tunisini e siciliani -, “Rumore di acque”, appunto, e “Mare Bianco”, film documentario, in cui Alessandro Renda racconta del millenario andirivieni fra le due sponde del Mediterraneo – dai Fenici ai Greci, dagli Arabi ai Normanni, fino agli sbarchi di profughi di questi ultimi decenni.

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E’ proprio su questa tragedia contemporanea, che fa focus “Rumore di acque”: un monologo, in cui un sedicente Generale della Marina è impegnato in un meticoloso, quanto insensato compito di catalogazione dei profughi – quasi che l’ossessivo sistemare potesse in qualche modo contribuire a trovare un senso. Non fa che citare numeri. Ad ogni numero corrisponde un nome. Per ogni nome una storia – in nessun caso a lieto fine -, dell’ennesimo disperato, salpato dall’Africa in cerca di fortuna. Una litania di storie dure. Quella di Youssoupha, ad esempio, scafista per gioco, ma poi davvero irretito dall’avidità del facile guadagno, al punto da improvvisarsi Caronte di compaesani, per diventarne invece compagno di morte. E poi quella di Sakinà. Un “carico prezioso”, lei e le altre ragazze, forse vittime di abusi in patria e importate per il trastullo dei bianchi: un carico prezioso finito in fondo al mare, dove quelle ossa son diventate corallo e perle, quegli occhi. O, ancora, la storia di Jasmine, la cui dura traversata non è finita in pasto ai pesci. Ottocento metri di nuotata pazza e disperatissima per salvare sé e l’amica; e poi il ‘porto sicuro’ nella casa di un ottantenne a cui badare. E fargli “anche quella cosa là” è il tributo alla scampata morte.
rumore26Ce ne sciorina a bizzeffe, di queste storie, il Generale. Tanto che i numeri non bastano. Anzi: sono i numeri a diventare il solo reale stigma e protagonista. Vengono proiettati sulla parete a caratteri cubitali, a un certo punto. Ad ogni numero un nome, quando le storie si perdono. E poi neanche più nomi, ma solo un marziale e asettico “non identificato”. Ed il rintocco di una campana a morte, battuta, dalla regia, da quello stesso Marco Martinelli, che, con Ermanna Montanari, fu storico fondatore della compagnia. E una serie di considerazioni: quelle del Generale – sulla grandezza dei numeri: fino a 5 cifre – e poi anche le nostre. Resta attonito, il pubblico.

E’ cifra del Teatro della Contraddizione chiedere agli attori/compagnie in scena di far precedere lo spettacolo da un’azione nel foyer. La scelta, qui, è stata di affidare a ciascuno un biglietto con stampato un numero: “Memorizzalo”, ci viene detto, nel consegnarcelo. Poi all’entrata a qualcuno viene chiesto: “Qual è, il tuo numero?” “12345”, rispondo, mostrando il pizzino verde, su cui era stampato. E non può non far rabbrividire vederlo proiettato per primo, a caratteri cubitali, nella sequenza degli anonimi cadaveri – o resti di cadaveri. Ti mette in una posizione scomoda, attivando un inevitabile mirroring. Senz’altro ti fa sentire chiamato in causa, dopo quel florilegio di storie di disperati. Lo capisci per un’empatia quasi chimica: solo lo scherzo di un destino beffardo ha evitato che quello fossi tu – forse per il solo fatto di essere casualmente nato “dalla parte giusta” del comune pelago.
Un lavoro curato, dove niente è lasciato al caso. Alessandro Renda, il Generale, da Generale indossa la giacca a doppio petto e con passamaneria, ma corredata da un curioso paio di guanti blu- puffo, che già virano al grottesco, così come il prezioso modular di quella vocina stridula e disturbante. Indossa occhialoni da sole – un po’ telefilm anni “70 -, con cui si scherma gli occhi nonostante la semi oscurità del monologo, solo a tratti è squarciato da tagli di luce netti. Per la quasi totalità del tempo resta semi buio e gocciolante come un antro di balena, non-luogo, in cui idealmente espleta l’ingrato compito. Se li toglie solo nell’ultima scena: al grido di “Non ci leg-go”, che si fa metafora parlante. Per anestetizzare il suo ruolo, di tanto in tanto ci volta le spalle e beve generose sorsate di alcool, quest’uomo sprezzante e grottesco, a cui è affidato un testo che vuol ottenerlo attraverso un doppio salto carpiato, il consenso del pubblico. Non la storia vera di un teatro di narrazione per palati avvezzi al politically correct; quel che si fa è pungolare il pubblico con provocazioni che non possono non indispettire. “Sono ancora sugli alberi… si mangiano fra loro… e poi vengon qui a parlare di democrazia”, una fra tutte.

Sarcasmo. E’ questo, secondo Martinelli/Montanari, il solo modo per poter esprimere l’insostenibile groviglio, che inghiotte tutto e tutti, in questa vicenda. Non solo le vittime del mare – risucchiate in quella spirale di mulinelli riprodotta con pezzi di pietra vulcanica, sul palcoscenico. E’ qui che si muove il Generale: in questo terreno minato che, ad ogni passo, minaccia d’inghiottire pure il comune buon senso, l’affidabilità delle forze dell’ordine e la credibilità di chi gestisce la cosa. E come non vedere che sono altri, gli ‘squali’ contro i quali impreca nell’incontenibile j’accuse?
Un testo politico, dunque, dove alla facilità del tutto per bene – “E’ più facile accogliere che respingere”, gli dicono, i suoi superiori, delegando poi a lui, il lavoro sporco – quasi per stridente contrasto si vuol dar voce a tutte le rotelle di quell’ingranaggio, che invece evidentemente ancora arranca.
Visto al Teatro della Contraddizione, dov’è rimasto in programmazione il 10 e 11 ottobre.

Francesca Romana Lino

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