“Another dead man walking” di Paolo Scheriani e per la regia di Nicoletta Mandelli è una drammaturgia precisa e collaudata, che, come una bomba ad orologeria, esplode quando meno te lo aspetti – e, quando esplode, è perché ogni singolo pezzo dell’ingranaggio è esattamente lì, dove dev’essere.
Della bomba ad orologeria conserva tutta l’angosciante e inane attesa: quella di chi sa che in nessun caso il cavo potrà essere staccato. Non è la grazia del singolo, infatti, quel che si chiede; bensì un’occasione di denuncia della ferocia di un sistema che si arroga il diritto non solo di pretendere una vita in cambio di quella maltolta, ma ne centellina la riscossione, indugiando in un sottile sadismo temporale, che schianta. E’ una consapevolezza densa, subdola, feroce, asfissiante; un rantolo che ti si strozza in gola, lasciando solo il labiale delle estreme, vane e forse pure banali parole di un uomo polverizzato dalla certezza del quando. “Conoscere l’ora della propria morte fa più paura che morire”. In fondo è questo, quel che si vuol dimostrare e, se si stigmatizza la pena capitale, il solo vero argomento escusso è quello di chi mostra – sé nonostante – quanto sia ‘ingiusto, illecito, insensato’, un tal tipo di condanna. Nessun argomento moralistico, dunque; soltanto la parola come gesto estremo: il racconto, la testimonianza di chi questo baratro di angoscia è costretto a sentirselo sfrigolare sotto la pelle – istante per istante, battito per battito.
Rappresentato per la prima volta nel 1999, lo spettacolo si colloca all’interno di un comune progetto di partnership a fianco di Amnesty International, Comunità di Sant’Egidio e Nessuno tocchi Caino. L’intento, lo si diceva, è sensibilizzare. E nessun medium, forse, è più azzeccato di quello teatrale – per sua natura parola, racconto, testimonianza, ma poi anche coralità, condivisione e scambio.
Ma torniamo alla bomba ad orologeria. Eccone, sul palco, distribuiti a bella posta i costituenti: la dinamite – la sedia elettrica, sulla sinistra: vuota, ma proprio per questo così oscenamente pronta ad accogliere nel suo abbraccio -, il detonatore – la sedia, quasi in proscenio, con tanto di microfono ad asta -, la scintilla – lui, il condannato a morte, con la sua parola – e, sullo sfondo, un anonimo orologio da muro: eccolo, il non sotto valutabile coprotagonista. Fattore tempo. Molta parte della scrittura gioca sulle sue declinazioni – dalla lentezza non performativa, che rese il morituro un ‘perdente’, agli occhi del suo asfittico éntourage, all’incarnazione nell’oggetto-feticcio dell’orologio d’oro del padre, causa scatenante del brutale assassinio. Ma il tempo è anche quest’ora di durata della pièce – che coincide con l’ultima ora di vita del condannato -, oltre che quel “meccanismo dell’ombra”, in ottemperanza al quale coloro che stanno per essere giustiziati proietterebbero un’ombra indelebile, dietro di sé, lunga – indipendentemente dalla posizione della fonte di luce – quanto la parte restante di vita, che avrebbero potuto godere.
Si accende una sigaretta, il condannato/Scheriani: l’ultima, come da copione.
E mentre il suo umore comprensibilmente sbalza, inseguendo con gli occhi i brandelli della sua vita deflagrata, le parole cercano una ricomposizione. Racconta di sé. “Quello che ho fatto? Ho ucciso – ammette, con voce strozzata – Ma ora non ne voglio parlare. Voglio parlare di me”. Inevitabilmente, racconta della sua condizione di condannato, anzitutto – l’angoscia, insostenibile, che a tratti lo fa imprecare, piangere o supplicare: “Aiutatemi… Non voglio morire… Mamma…”.
Scoppia fin da subito, questa bomba. Non sappiamo nulla di lui – chi è? Perché è lì? Di quale reato si è macchiato? Ma drammaturgicamente è giusto così, volendo portare avanti la difesa del principio: “Nessuno tocchi Caino”; meglio: nessuno si attardi a torturarne la mente, marchiandogli addosso una data di esecuzione, che ne è anticipazione protratta e reiterata. Tanto più poi che questo Caino, nello specifico, ci mette del suo, cercando ed elencando la fenomenologia dell’elettrocuzione – come si fregia di chiamarla, con tecnicismo scientifico, a dimostrazione delle ricerche compiute – e documentando tutti i casi, in cui l’esecuzione non andò come dovuto – con le minuziose atroci conseguenze. Ecco: è solo quando abbiamo imparato a conoscerlo come dead man walking, che via via ci viene raccontato l’uomo. Prima solo lui – la sua tuta arancione e le manette ben visibili a stringergli i polsi – e poi è come se ci lasciasse spiare i panni ch’era solito portare.
Perché? Perché dietro a Caino ci sono mille occasioni, circostanze, vicissitudini, che sicuramente non giustificano, ma forse spiegano come si possa essere giunti a tanto. Ciascuno per un suo percorso. Ciascuno seguendo il suo personale modo di “uccidere, rubare, parlare o tacere” – le più disparate, le ragioni della condanna capitale, nei diversi Paesi del mondo e a seconda delle condizioni di pace, di guerra, democrazia o dittatura. E solo alla fine ci racconta il suo caso – il reato commesso, lo straniamento del processo, la condanna… fino all’afasia dell’attimo prima dell’esecuzione.
Un clinamen. Ma, curiosamente, un clinamen discendente – la bomba che esplode fin da subito e poi il tentativo di ricomporre i brandelli rimasti al suolo. Convince, anche lo Scheriani attore, nell’incipit, quando si concede quei tempi lunghi di recitazione, entro cui troppo poco spesso gli attori si permettono di respirare – frattanto il testo recita: “Non ho molto tempo e forse neanche molto da dire. Ma ho come l’impressione che, parlando, allontanerò il momento della mia morte” ed auspica una “parola lunga cento anni”. Poi via via accelera – sfalsando un po’ gli appuntamenti dell’emozione del pubblico – e conclude con un pezzo di totale ‘bravura tecnica’.
Certo, probabilmente un monologo così forte non lo si può recitare tutto sul filo dell’emozione.
E, così, l’effetto, è che l’affetto vada al Caino detenuto nel braccio della morte, più che non all’uomo, che di quel Caino è stato l’antesignano. Coerentemente con la tesi. Ma se la battaglia è pro commutazione della pena capitale in ergastolo, toccherà forse farsi carico della questione di recuperare il Caino al singolare individuale: in un carcere solo detentivo o anche capace di rieducare? Ma qui si aprono scenari che esulano.
Teatro Alle Colonne – 11 aprile 2015
“ANOTHER DEAD MAN WALKING”
di e con Paolo Scheriani
Regia Nicoletta Mandelli
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