In Prima Nazionale a Milano, Jan Fabre e l’ossimoro dell’uomo post moderno

“Non era il cuore, non era il cuore […] Non le bastava quell’orrore, voleva un’altra prova del suo cieco amore”, cantava, De André, nella sua “Ballata dell’Amore Cieco o della Vanità”, anche se l’amore cantato, in questa caso, non ha nulla a che vedere con quello più o meno struggente o romantico di una liason à deux, quanto piuttosto con quel: “Amare se stessi è l’inizio di una storia d’amore che durerà tutta la vita”, su cui ironizzava Oscar Wile. Ed è proprio un cuore così – pulsante, nella sua meccanica impietosa e iper realistica… assordante, nel suo battito, che rimbomba nello stomaco… ingigantito, come tutto quello che parla del solipsismo auto centrico dell’uomo contemporaneo… – ad accogliere il pubblico de “L’imperatore della sconfitta” di Jan Fabre, in Prima Nazionale al Teatro Out Off di Milano dal 16 al 27 maggio 2017. Un video, in loop, che non può che arrivare schietto come uno schiaffo, e, attraverso la filigrana del tulle su cui è proiettato, un altro cuore: a terra, scomposto – quasi macellato -, ma non per questo meno vivido, in quelle due metà anatomiche, che appena s’indovinano.

2 L'imperatore della sconfitta di Jan Fabre regia Elena Arvigo e Sara Thaiz Bozano nella foto Elena Arvigo e Marco Vergani- Foto Dorkin
Elena Arvigo e Marco Vergani – Foto Dorkin.

Con un incipit così, certo poi non è facile esserne all’altezza. Ma Sara Thaiz Bozano ed Elena Arvigo (pure in scena, quest’ultima, con Marco Vergani), immaginano una scatola magica, che, alternando la parola densa e poetica del testo – la traduzione ad opera di Giuliana Manganelli -, le immagini spettacolari dei video e un contrappunto di costumi e oggetti di scena dalla naïvité ricca e surreale, riescono a sortire un effetto avvolgente e coinvolgente.

E’ un costante gioco di ossimori. Se imperatore, infatti, evoca l’idea di un uomo forte, dal potere sterminato e indiscusso che si estende fino agli estremi limiti della Terra, poi scopriamo che ciò su cui detiene il primato, questo homo novo, è la sconfitta; già dal titolo e fino alla commistione dei registri, infatti, tutto sembra parlarci di tutto e del suo contrario. “Vorrei essere giovane e vecchio”, dice, questo personaggio. Unico, nel monologo originale di Jan Fabre, qui viene raddoppiato come da quel gioco di specchi che riaffiora, costantemente, in questa poetica della scomposizione e della ripetizione, dell’affastellamento e dell’anafora, che sembra tornare, a ondate, come un mare calmo ma implacabile e che certo non accenna ad esaurire il suo modo perpetuo. E’ l’ostinazione della formica, forse più simile a quello scarabeo di faraonica memoria, dietro il cui far rotolare la sfera di sterco, si celava la cosmogonia dell’eterno risorgere del sole. Nulla, del resto, è censurato, da questa poetica funambolica, in cui alto e basso si mescolano; così se la condizione umana viene restituita sia attraverso immagini nobilitate – “Sono poeta […] e sono “mago” con tutto lo struggente disincanto dell’immaginario felliniano –, lo è anche attraverso metafore in cui si parla di “cani scodinzolanti”, “scimmie urlanti”, “principesse agonizzanti” e “topi spaventati”, né si cede certo a falsi pudori fino a chiudere con: “Siamo diventati tutti ‘re nudi’, animali selvatici, che puzzano”.

L'imperatore della sconfitta di Jan Fabre regia Elena Arvigo e Sara Thaiz Bozano nella foto Elena Arvigo e Marco Vergani- Foto Dorkin

Ma di cosa parla, alla fine, questo monologo? Dell’uomo: di quello che siamo noi, figli dei figli di coloro che credevano ancora – titanicamente! – alla possibilità di un’auto salvazione individuale e laica, ma anche i pronipoti di chi ha gettato la spugna, vinto dalle nevrosi e dallo scacco dei tempi, pago di quel “segreto”, serbando il quale ci si accontenta di andare “zitto, fra gli uomini che non si voltano”, come scriveva Montale. Una summa del pensiero post moderno: c’è l’ Übermensch di Nietzsche – ma senza quell’eroica auto predestinazione – e c’è “il piacere della metamorfosi” di Kafka – che se, in Kafka, piacere non è, corre, qui, come freccia scoccata, a recuperare l’ancestralità dei riti zoomorfici apotropaici -; e c’è, di Nietzsche, il deflagrante delirio della volontà di potenza o di quel: “Io sono dinamite!”, nel: “Io brucio! Sono torcia! Brucio non solo per me, ma per dare fuoco e fiamme dagli altri, come io li ho ricevuti da loro; brucio al ritmo scatenato del mio cuore”. E poi c’è tutta la prosaica condizione dell’uomo moderno: un uomo mite, sconfitto; un anti-eroe. Eppure, qui, è proprio questa dimensione di consapevole-accettazione-ma-mai-di-resa, quella che, lungi dal virare in superomismo neoromantico o, al contrario, nella nevrosi sottile di tanta parte della letteratura novecentesca (Sartre incluso), con la piroetta quasi beffarda del guitto si rivolta in un’accettazione consapevole e gioiosa. “Sono quella formica della terra, che ricomincia e ricomincia ogni volta. […] Io posso ricominciare ogni volta che voglio con l’illusione reale della prima volta”. E cosa dà, a questo omino replicato e dall’evanescenza quasi lunare una simile certezza?
L’Arte, in fondo, sembra essere la via… “Sapevo recitare, una volta, e per questo mi esercito: l’esercizio genera l’arte”.

E così, dopo averlo fatto a pezzi e divorato, il suo povero e ostinato cuore, dopo esserselo chiesto in modo sempre scandito e monotono – a prescindere che si trattasse del proprio o di quello degli altri… a prescindere se stesse nel registro recitativo o nella finzione-nella-finzione delle stesse parole, ma ripetute a microfono spento e luci accese, a bordo platea -, ecco ancora a chiederselo: “Dove porterò il mio povero cuore?” “Io sperimento”, confida: “Sperimento per creare sempre mondi nuovi… forse solo vanità del mio sognare. Forse per questo siamo entrambi qui: io, solo, col mio sogno”. Eppure non demorde: “Osare dire no” troneggia, a un certo punto, sullo schermo a fior di pubblico; e lui continua: “Voglio sognare il sogno insolubile” nella sua fenomenologia dell’ inutile, che pure non tutti sanno usare. E, alla fine c’è spazio anche per un happy end?
Chissà se in questa sala macchine fuori dal tempo, dove tutto fluisce con infallibile precisione, non possa ancora esserci uno spiraglio: un pertugio da cui, abbandonato il gioco frastornante di una ripetizione ossessiva o omologante di specchi (questa, la denuncia di Jan Fabre, ad una società perfomante e vincente, o così, almeno, illusa di essere, in quell’ormai lontano 1994), lasciarsi sorprendere dal pizzicorio di ali, che spingono per uscire dal mezzo delle scapole… o una piuma – leggera e virtuale – da appuntare alla trina dello schermo rarefatto delle proprie emozioni.

Francesca Romana Lino

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