Michele Di Giacomo e i fatti della Uno Bianca

“La vita è un incubo o gli incubi aiutano a (soprav)vivere?”, verrebbe da chiedersi, chiosando Marzullo, a proposito di questo “Le Buone Maniere” di Michele Di Vito e con Michele Di Giacomo in scena e alla regia. Al debutto ieri al Teatro Libero di Milano e in replica fino a domenica 28 maggio 2017, lo spettacolo propone una trasposizione teatrale dei fatti della Uno bianca, ovvero una delle più efferate pagine di cronaca nera, che abbia mai insanguinato l’Emilia Romagna – e poi giù, fino alle Marche.

Siamo fra il 1987 e il 1994: quasi un decennio. Tanto c’è voluto per venire a capo di una vicenda, in cui due dei tre protagonisti di punta facevano parte delle forze dell’ordine – con le facilmente intuibili possibilità e occasioni di depistaggio delle indagini. La storia è quella dei fratelli Savi (già il nome, qui, suona come una tragica beffa) e della lunghissima serie di colpi messi a segno nel territorio: rapine, nelle intenzioni iniziali, ben presto degenerati in omicidi, talvolta anche senza una vera e propria ragione, più spesso vissuti come variabili che non come tragici incidenti. Così dalle parole dei protagonisti; così nella riscrittura teatrale di Michele Di Vito, che, supportato dalla consulenza drammaturgica di Magdalena Barile, confeziona una partitura asciutta e tagliente.

Michele Di Giacomo è Fabio Savi
Michele Di Giacomo è Fabio Savi

Sul palco, il Di Giacomo impersona Fabio Savi la notte precedente l’intervista: forse proprio quella rilasciata, nel 2001, a Franca Leosini per “Storie Maledette”. Solo un escamotage – l’occasione, l’ effettiva intenzione del Savi di pubblicare le sue memorie – per ripercorrere, a ritroso, gli avvenimenti, ponderando il taglio più efficace per darli in pasto all’opinione pubblica. Artificio legittimo, in fondo, per cercare di capire. “Ora ti tocca ricordare”, gli dice infatti, nella luce al neon di tubi dall’effetto straniante, quel suo fantasma-SuperEgo in divisa, probabile l’incarnazione schizofrenica della vocina, che aveva iniziato a parlargli, racconta, dalla sera della prima rapina al casello autostradale di Pesaro. E se anche non è dato capire se sia allucinazione, sogno o livida proiezione di quello status di forza dell’ordine dato solo ai suoi fratelli, ma negato a lui per un beffardo difetto alla vista, una cosa è chiara: “[ti tocca ricordare] – gli intima il figuro in uniforme – non per la loro pietà, ma per ricordare e far sapere chi sei”.

Inizia così la delirante ricostruzione dei fatti, che non poteva che sfociare in una strage annunciata. Muovendo da un contesto socio-relazionale e familiare di chiusura, in cui ad una ferrea disciplina esteriore – “le buone maniere”, appunto – corrisponde invece un sostanziale dileggio di tutto e di tutti, s’insinua attraverso un rancore sordido e montante in risentimento, odio razziale, spirito di rivalsa fino all’acme del più totale delirio auto giustificativo. “Tutti questi emigrati che si fanno i soldi facili solo perché hanno il giro giusto – ringhia, ricordando l’epilogo conseguente al suo licenziamento – Allora io vado […] e mi mangio tutta la torta!”. E’ questo, il suono delle parole e dei ragionamenti, che gli ronzano in testa, in quella notte che sembra ricordare, nel logorio (certo, qui, di ben altra natura), quella dell’Innominato di manzoniana memoria. La sua forza sembra essere quella – indiscutibile! – della legge di natura e del branco; la famiglia, quella di appartenenza, la sola cosa, che sembri avere ancora un’inviolabilità sacra nel suo dissestato sistema di riferimenti a-morali; e “Zanna Bianca”, “da cui ho imparato più che dal Catechismo”, ammette, con sinistro e irriverente paragone, e l’immancabile appuntamento quotidiano con “Quark”, le sole routine capaci di offrir ristoro al suo rancoroso tormento.

“La maggior parte di questi qui – così alla fine immagina l’incipit dell’intervista – per non impazzire si affidano a Dio – dice, con evidente strafalcione in un volutamente forzato accento romagnolo, efficace nel restituire autenticità al personaggio -. Io no. Conto le stelle… perché mi danno equilibrio. Anche qui c’è bisogno di equilibrio” Così chiosa, quasi a cercar un appiglio nel suo delirante magma interiore, senza spiegare bene se, con quel qui, intenda riferirsi al carcere (di cui descrive la ripetitività ossessiva fin nei dettagli degli uccelli, che si posano, alla stessa ora, in un punto o nell’altro del cortile o che ripetono azioni antiche ed immodificabili eppure preziose come quello dello spulciarsi reciproco: “E’ per questo che dico che son sorelle, le cornacchie: perché si beccano e così si spulciano a vicenda”) o alla proprio condizione esistenziale.

Non c’è giudizio e non c’è pietà, nella trascrittura teatrale: solo si raccontano uno strano miscuglio di malcontento, rancore, rigidità, rivalsa sociale montanti fino a deflagrare in una psicosi delirante, alloplastica e impermeabile ad ogni umano sentire, che Di Giacomo restituisce bene con la sua recitazione precisa e misurata, in linea con quel distacco e con quell’incapacità di empatizzare che è dello psicotico. Torna in mente la banalità del male di harendiana memoria. Ne vien fuori un contesto claustrofobico e destabilizzante ben supportato dalla scelta dei pochi eppure ben sfruttati, nella loro versatilità, oggetti di scena e delle luci così ossessivamente identiche a se stesse se non nei momenti “altri” dell’incubo o dell’ideazione (che sia ricordo o intervista, poco conta). Ci sorprende, a tratti, come la parola si faccia poetica (come nell’immagine di quel “sangue secco, che si fa polvere” a restituire l’impalpabilità tangibile della totale mancanza di senso di colpa o di pentimento), nonostante che il pensiero sia e resti dei più feroci (alla madre che, durante il processo, lo accusava di averle ucciso un figlio, provocatoriamente rispondeva: “Beh, fattene un altro!”).

Sicuramente uno spettacolo ben fatto, che, in filigrana ad una vicenda così terribile (specie per chi in quel decennio e in quei luoghi si è trovato a dover vivere), quel che realmente racconta è la pericolosità di una condizione umana tanto colposamente incapace di empatizzare coi propri simili, da auto arroccarsi in espugnabili sacche di formalismo e ferocia.

Lascia un po’ perplessi quel finale sospeso… Forse un estremo tentativo di riportare un po’ di seppur prosaica bellezza (le stelle, seppur solo dipinte, sul soffitto) o, invece, di calare definitivamente il sipario su un solipsismo talmente autistico da aver perso la speranza di poter anche solo spiegarlo.

Francesca Romana Lino

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