Nuovi Scenari

Nel weekend di Sant’Ambrogio – 7 e 8 dicembre – il teatro meneghino Franco Parenti ha aperto le sue porte al Premio Scenario, prestigiosa kermesse di drammaturgia giovane, ospitando la messa in scena di: “M.E.D.E.A. Big Oil” (InternoEnki Collettivo) e “Mio figlio era come un padre per me” (dei fratelli Diego e Marta Dalla Via) , rispettivamente vincitori del Premio Scenario per Ustica 2013 e Premio Scenario 2013, oltre a “Trenofermo a Katzelmacher” (collettivo nO (Dance first. Think later) ) e “W (prova di resistenza)” (Beatrice Baruffini), testi, questi ultimi, che hanno ricevuto la menzione della giuria.

M.e.d.e.a. Big Oil_ foto tomaso mario bolis_Collettivo InternoEnki

Una maratona di tutti e quattro gli spettacoli riproposti in entrambe le serate col medesimo ordine, per offrire al pubblico la possibilità di tastare il polso alle nuove generazioni – il bando era accessibile solo agli under 35 – e scoprire cos’ abbiano effettivamente da dire, i giovani, quando si smetta di parlar di loro in terza persona e si lasci invece a loro stessi facoltà di parola. E questa generazione, intanto, sorprendentemente ci parla di un rapporto tanto viscerale, nel bene o nel male, col proprio territorio e cultura d’origine, da scegliere il dialetto, spesso, pur a rischio di perderne in comprensibilità. La stessa Beatrice Baruffini – la sola a preferire l’italiano per il suo “W (prova di resistenza)” – di fatto poi ci presenta un episodio della storia resistente della sua Parma: ribadendo, così, anche lei a proprio modo, il forte spirito/bisogno di radici per poter offrir ali al percorso di individualizzazione/emancipazione.

Altra tematica comune è la denuncia – forse tratto tipico di un’età ancora giovanile… -, seppur declinata in modo differente: quella sociale ed esplicita, ad esempio, mixata con grande maestria da Collettivo InternoEnki, che punta il dito contro demagogia, inciuci politico-economici, business spregiudicato, ma poi anche contro la connivenza ed il servilismo superstizioso della popolazione locale, scioccamente avvinta dall’illusione di un lavoro, che le consentirà di non dover emigrare: e tutto assume atmosfere grottesche ed ancestrali, che sanno di clan, di superstizione, della portata tragica di una Medea, appunto, e del suo tenace spirito da ‘lupa’, nonostante il dissesto in cui di fatto precipita gli sventurati figli.

Denuncia sociale anche in “Treno fermo a Katzelmacher”, che dal non-luogo di un non meglio identificato paesino del sud Italia – da dove passa un treno: che non ferma mai lì… – stigmatizza atmosfere surreali e alla Fassbinder, di ferocia e dissesto sociale, di sclerosi intellettuale e di noia, che meglio non sanno trovare se non cercarsi un capro espiatorio contro cui sfogare la propria rabbia e frustrazioni represse; e così “Dagli contro le straniero!” – katzelmacher, appunto -: ma nessuno è esente dalla becera violenza di un branco, ambivalente nell’amare e pestare i suoi stessi membri. Denuncia storico-politica è quella della Baruffini, o, ancora, denuncia generazionale -anche se qui in modo assolutamente inedito e sorprendente -, quella della vincitrice “Mio figlio era come un padre per me”.

Ma la denuncia è solo la pars denstruens, come ben testimoniano la stessa scelta di ‘far gruppo’ piuttosto che lasciare alle individualità la forza solo per soccombere. L’Uomo-che-corre-sui-tetti, uno dei personaggi di “Prova di resistenza”, ad un certo punto più o meno dice: “Li vedi, quegli uomini vinti e stesi per terra? Sono già nella posizione giusta: basterebbe solo che si sollevassero tutti insieme…” E che distruggere non basta, ce lo dice anche la volontà caparbia di trovare un appiglio: che poi siano i mattoni forati della Baruffini o le tavole intagliate dei fratelli Dalla Via o, ancora, quelle cassette vuote che, sempre nella loro “Mio figlio era come un padre per me”, diventano ugualmente lego, con cui costruire, decostruire e icastizzare i resti di un rapporto generazionale ribaltato, poco conta.

In ogni caso: “Resistere!”, sembra essere la parola d’ordine; per poi trovare un pertugio e, da lì, ricostruire un futuribile inedito, ma a misura delle sollecitazioni di questa società del pil, dei profili facebook e dell’edonismo coute-qui-coute, per esorcizzare lo sgomento di non sentirsi realmente esistenti; notevoli, in tal senso, sia le filastrocche scacciaguai recitate da Medea, in un lucano stretto ed ancestrale, sia la riflessione sugli specchi come qualcosa che non esisterà più, in un futuro affrancato dalla preponderanza del fuori rispetto dentro, detta dal fratello in “Mio padre…”.

Proposte ben strutturate anche da un punto di vista drammaturgico: così, assolutamente credibile risulta la rivisitazione in chiave ‘italiota’ del Fassbinder in “Katzelmacher”, in una costante ma non rarefatta estraniazione da maestri del non-senso – “Ma a nnu siamo, ca?”, dice uno del branco: ovviamente alludendo non tanto al luogo fisico, quanto al senso dello starci, in quel luogo – ; elegante ed innovativa, la rappresentazione per ‘soli forati’, in cui la Baruffini si aggira fra i mattoni come fra inediti burattini, calibrando l’intera lingua del racconto a sfruttare le suggestioni derivanti da quell’area semantica; engagé, sia sul versante sociale che su quello della trasposizione antropologico-letteraria, lo spaccato di una Basilicata, ferita a morte eppure quanto mai reattiva nella sua vivacità irriducibile; innovativa, l’idea di ribaltare la dialettica padre/figlio, fino a a pensare di recidere i fiori per mortificare la pianta.

Dunque: sperimentalismo linguistico, innovazione-nella-tradizione ed il generoso coraggio giovanile di sporcarsi le mani, sperimentando in tutte le direzioni possibilità – da Medea a Fassbinder: da un dialetto, che va ad attingere nel primigeno ad un desiderio di richiamarsi ai maestri del disagio. E se pur gli epiloghi non sono certo facili happy end, comunque ci parlano di un’apertura (auto)salvifica: ed il messaggio arriva forte a chiaro, passando – anche – per la via dell’emozione.

Francesca Romana Lino

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