Quinto: non uccidere

Fresco del Premio “Jurislav Korenić” per la Regia al GRAND-PRIX del 53mo Festival MESS di Sarajevo 2013, “L.I. Lingua Imperii” di Anagoor è stato in scena fino a oggi all’Elfo Puccini di Milano.

Un testo composito – drammaturgia di Patrizia Vercesi e Simone Derai, pure regista -, che mescola varie suggestioni comunicative: video, (poca) azione scenica, interi brani recitati al microfono e canto – monodico e per sola voce: suggestivo e sofisticato. Ed è forse un po’ questo, il peccato originale dell’intero progetto: la nozionistica passione di chi serba ancora fresca nel cuore – e nella memoria – tutta quella serie di informazioni, date, eventi, che la pulsione giovanile – e lo sdegno senza quartieri di quella stagione della vita – trasformano in urgenza. Uno tzunami: che, se impropriamente cavalcato, rischia di travolgere, anzicché sferzare.

http://www.anagoor.com/home.htm
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Tre, i bandoli da acchiappare e tenere saldi in mano: il colloquio fra i due nazisti, la simbologia sacrificale della vittima e l’ambiguo gioco vittima/carnefice. Il tutto transustanzia nella figura/sintesi di Ifigenia: corona sul capo – icona della vittima sacrificale – ed una curiosa museruola sulla bocca ad occluderne la parola, lasciando che la supplica le irrompa dallo sguardo…

Intanto il colloquio/intervista fra Voss – un politologo, s’intuisce, anche se lui pure in divisa – ed un militare nazista: già il modo di porgercelo – i due busti di profilo, proiettati su due schermi sospesi agli antipodi del palco – ci lascia intuire la loro distanza; che diventa paradossale nel momento cui vien versato del tè: grottescamente dal un capo all’altro della scena. Scandito in tre momenti, da subito ci parla dell’abisso – culturale, prima; ideologico, si rivelerà poi… – fra i due: perché se, all’inizio, il linguista sciorina una meravigliosa selva di lingue e dialetti, in cui si scandirebbe il ceppo indo-caucasico degli abitanti dell’area geografica della Crimea – siamo nel 1942 -, si capisce presto che il suo intento è politico: diversità di lingua e cultura è altro da diversità di razza. Il divisionismo culturale è da subito deprecato quale forma di autoisolamento. Si sottolinea, invece, come la soluzione sovietica avesse anzitutto fornito un alfabeto comune – cirillico… -, su cui poter costruire una medesima lingua; quindi una cultura unitaria ed un unico popolo, quali fondamento della democrazia. S’infervora quando parla della pretesa superiorità ariana di un popolo originario – ‘teologi deliranti’ e ‘filosofie da veterinari’, dice –, che falsifica l’attendibilità sia storica che scientifica; ed argomenta in modo analogo in merito alla pretesa ‘purezza’ e quindi condannabilità degli yiddish.

http://www.anagoor.com/home.htm
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Discorso lungo – giustamente dilazionato in tre momenti – e complesso: e l’uso del tedesco – seppur con sottotitoli – non aiuta. Quasi a compensarne l’osticità, la prima tranche viene seguita da una sinuosa voce narrante, che rievoca la vicenda del sacrificio di Ifigenia, nell’Iliade: forse un tentativo di trovar scampo nell’idealità mitica; da dove, però, riaffiorano gli stessi paradigmi di morte ingiusta.

Scenicamente la suggestione è resa con la spogliazione dei giovani attori, dopo aver indossato corone intrecciate da loro stessi. Sono stati aiutati da figure genitoriali, ora anch’esse spogliate: un evidente j’accuse, che neppure il convenire in un medesimo cumulo di cadaveri – vittima-e-carnefice quale estremi di un unico dilemma – sembra stemperare. Di fatto: nessuno si salva. E ce lo dicono con mille aneddoti – tratti dai campi di sterminio, dalle vicende della guerra in Jugoslavia; dalle pagine di memorie giovanili del secondo conflitto mondiale, dai diari di memorie di caccia fino a rievocare l’agiografia di San Giuliano, restando sempre in quell’area geografico-culturale.

Ma, forse, il peccato è proprio qui: troppe suggestioni, troppe emozioni violente e negative, nonostante le immagini video – questo, il terzo bandolo – fossero spesso mute, poetiche, suggestive nel loro silenzio dirompente. Icasticamente forti i lunghi fotogrammi di giovani, muti e trasformati in capri espiatori con tanto di ganci nelle carni o morsi, pelli, corna o altri dettagli a richiamarne la simbologia della cerva. E tutto transustanzia nella figura di Ifigenia, si diceva: ammutolita dal un bavaglio – come nel racconto epico: affinché non potesse imprecare -, sacrificata per un assurdo convincimento e che implora – con gli occhi – pietà ad una generazione di padri, probabilmente così anestetizzati dalla familiarità con l’assassinio – di uomini o bestie: poco conta -, da non essere in grado di sentire. E allora forse sono loro quelli che andrebbero salvati – torna l’ambiguo gioco vittima/carnefice! Non a caso quei ‘comandamenti al padre in lutto’, ripetuti in diverse lingue – quasi ad accomunare tutti in una medesima generazione scellerata – e la lettera d’addio al padre della 12nne ai tempi della guerra: il cui testo trascolora dal cirillico all’italiano, rivelandoci i confini meta temporali di quell’ imperium.

Francesca Romana Lino

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