Lo struggente Cantico di Latini Premio Ubu

Cos’è, in fondo, l’Amore, se non consegnare le armi della propria passionale vulnerabilità direttamente nelle mani di colui o di colei per i quali le si aveva tirate a lucido? Sicuramente è questo un primo livello di lettura del Cantico dei Cantici”, che Roberto Latini porta in scena al Teatro Litta MTM di Milano dal 15 al 20 maggio 2018. Scelta precisa, dichiarata anche nelle note di regia, è quella di liberare il testo da ogni possibile sovrascrizione esegetica, teologica o religiosa per riportarlo all’immediatezza – e, quasi, all’incoscienza, dice – di un cantico d’amore, passione, tenerezza, sensualità, erotismo, desiderio, cura, fecondità e obnubilazione dei sensi: è questo quel che intende fare Latini, ideatore del progetto, che ha vinto ben due Premi Ubu 2017 come Miglior Attore o Performer (riconosciuto allo stesso Latini in scena) e come Miglior Progetto Sonoro o Musiche Originali (assegnato a Gianluca Misiti).

E però non si scomoda un testo del genere solo per parlare d’amore; quel che Latini in effetti fa è soffermarsi su quel momento tanto eroico, quanto intimo e delicato, che è l’att(im)o preciso del donarsi, rimettendosi all’altro. È in questo fremito, nella sfidante incertezza dongiovannesca, nella tragica vertigine dell’aut aut in cui ne va di, per rispolverare categorie filosofiche otto/novecentesche, che si gioca una delle partite più importanti per la costruzione del proprio sé nella relazione adulta. Così non importata tanto quale sarà l’esito; interessante è il percorso che dilata la durata di questo struggimento e inseguimento-e-fuga: lungi dal declinarlo in modo sentimentalistico, Latini riesce a tradurcelo in una gincana, che lui stesso chiama bolero, a sottolineare la portata sonora della sua performance dall’impatto fisico importante e ben modulato.

Il testo resta sostanzialmente quello di Salomone, fatte salve alcune licenze, che lo stesso Latini si concede per esigenze ritmiche e sonore, principalmente, ma anche per introdurre la voce dialettica di quella lei che è il solo personaggio fuori dalla cantica biblica (e che ne spariglia esiti e dinamiche); al contrario, la messa in scena spiazza qualsiasi idea predefinita di reading si potesse avere. Per quanto già si pensasse a un’interpretazione naturalistica (Cantico inteso in senso esclusivamente poetico e letterario) e non allegorica (lettura religiosa) o tipica (allusiva al costume nuziale, che identificava lo sposo a un re e la sposa a una regina, con tanto di danza di lei, seduttiva nei confronti dell’amato, ma pronta a far assaggiare la spada al rituale pretendente che osasse avvicinarla e di cui troviamo traccia anche nell’azione scenica di Latini), quel che accade sul palco ha il sapore di una così prosaica e al tempo stesso sospesa contemporaneità, da obbligarci ad abbandonare ogni pre-giudizio e lasciarci trasportare. È una partitura fine, quella che ci si presenta davanti, giocata nella millimetrica alternanza fra il dentro e il fuori: al di qua e al di là dallo studio radiofonico, in cui sono comunque le strofe bibliche quel che va on air (come non vedere, in questo affidarsi l’etere, il corrispettivo del alla luna dei poeti di ogni tempo?); fuori da e dentro alla testa dello speaker nel gioco della musica che ci giunge amplificata quando è nella cuffia del dj (quasi a dirci che noi siamo lui); parole e musica, corpo e azione, ironia e pathos, poesia ed eros, Commedia dell’Arte e Accademia: c’è tutto questo nella corrente, in cui non sembra essere importante chi dica cosa, ma il sensuale flusso che, lambendo sinuoso le differenti regioni di sensi e spirito, arriva a tracimare fecondo come un Nilo in piena, esplodendo in una dichiarazione totalizzante e qui, sì, reciproca, del Diletto per Bella fra le Belle e viceversa. Ma il corpo racconta altro: così l’azione scenica dice delle titubanze e delle azioni mancate e di uno struggimento, talmente stridente rispetto al suo mascheramento da rockstar, da smascherarlo. Così dopo essere stato la bruna ma bella messa a guardia delle vigne per non aver saputo proteggere la propria e che ora fugge, pascolando le capre, all’inseguimento delle greggi del suo diletto; e dopo essere stato lui, venuto a bussare di notte alla sua porta, ma andato via, non avendo ricevuto risposta; e poi di nuovo lei, scappata in città a cercarlo e percossa dalle guardie; e , ancora, dopo essere stato il coro stesso delle guardie e delle fanciulle figlie di Israele e, finalmente, l’esplosione reciproca dei due amanti: cosa resta, di quest’essere destrutturato e prosciugato, nel delirio di quel: “I tuoi occhi mi dissolvono” e, però, nella bisbigliata supplica degli iterati: “Guardami…”?

Non si può non pensare che non ci sia un quanto meno sublimato gancio al di là della lettura solo naturalistica di quest’immensa lirica: non si può, specie dopo aver assistito ad una messa in scena così ben studiata, tecnicamente eseguita e generosamente spesa, in cui l’ironia di quel “Peccato…” difficilmente la si riesce a liquidare come una semplice chiosa in caustico levare.

Francesca Romana Lino

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marzo, 2024

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