Cosa fa di uno spettacolo un buono spettacolo? E cosa distingue un prodotto artistico da un’operazione (commemorativa, encomiastica o divulgativa, poco conta)? Tradizione e tradimenti, eccolo il binomio, che sembra tornare, a ondate, sulla scena contemporanea milanese e non. Così è anche in questo “Il Teatro Comico” di Goldoni, produzione Piccolo Teatro, dove Roberto Latini dirige un cast di eccellenze assolute proprio nella storica sede del Teatro Grassi di Milano, del cui genius loci lo stesso regista sottolinea l’importanza. Dal 23 febbraio al 25 marzo 2018, infatti, è possibile assistere a questo che si pone come un diamante della memoria e, al tempo stesso, struggente utopia del mancato incontro di due maestri-mostri sacri del fare Teatro nel Novecento, quali Giorgio Strehler e Leo De Berardinis dalla cui scuola provengono Elena Bucci, Marco Sgrosso e Marco Manchisi e quella Perla Peragallo con cui si è formato lo stesso Latini. Questo appuntamento sembra finalmente onorato qui, in uno spettacolo, che parla di teatro e di come farlo o non farlo, di riforma e di moralizzazione e lo spiega attraverso la visione di un attore-regista giovane quanto basta per avere la forza visionaria e l’irruenza di chi ha ancora molto da dire eppure sufficientemente maturo da guardare indietro, ma per poter andare avanti. E se il teatro in fondo altro non è che un arsenale di apparizioni – così Pirandello di cui lo stesso ha portato in scena “I giganti della montagna” –, Latini, qui, dispiega tutto il suo potente armamentario.
Così non fa specie che, nella ricorrenza del settantesimo dalla fondazione del Piccolo, possano vedersi insieme lo storico “Arlecchino Servitore di Due Padroni” – che, della riforma, è figlio primigenio – e “Il Teatro Comico”, pietra miliare della riforma goldoniana spiegata direttamente in scena; insieme, poi, rappresenteranno l’eccellenza teatrale italiana in una tournée all’estero. Qui confluiscono assonanze non solo visive della lezione strehleriana – da “La barca dei comici” alle silouhette di “Così fan tutte” fino al volo sospeso di un’Ariel/Stella Piccioni dalle fattezze dichiaratamente lazzariniane per non citare l’enorme statua di Arlecchino dalle movenze del suo insuperato interprete Ferruccio Soleri -, ma anche quelle del deberardinisiano “Ritorno di Scaramouche” – che di commedia dell’arte e di teatro nel teatro similmente fa suo oggetto -: fin dal palco sopra al palco, ad esempio, che troneggia all’aprirsi del sipario o nella presenza di attori del calibro di Elena Bucci, Marco Sgrosso e Marco Manchisi già presenti in quel cast. È un filo rosso che corre indomito, colorando questo “Il Teatro Comico” di citazioni, rimandi, ri-usi ovvero quella“[…]categoria per definire una pratica drammaturgica che, assunta nella dimensione della ricerca e della “sperimentazione”, instaura un rapporto non ripetitivo, ma vitale con la tradizione”, spiegava Franco Vazzoler, docente di Letteratura Teatrale all’Università di Genova.
E questo è “Il Teatro Comico” secondo Latini: un meccanismo millimetrico e sofisticato, in cui tutto ha un suo posto e scopo e senso e rimando preciso; tutto è centellinato, pensato e finalizzato con la stessa caparbia e tenace perfezione, che, per il troppo affilarlo, consumò il temperino del giovane Husserl prima ancora che potesse metterlo in uso. Certo, non si corre lo stesso rischio, qui, dato che lo spettacolo ha felicemente debuttato, coronando il suo scopo di essere consegnato al pubblico; eppure aleggia il dubbio di quanto possa essere davvero “teatro d’Arte per tutti” un lavoro, rispetto al quale, come in una dichiarazione d’intenti, al Professor Gerardo Guccini che lo intervistava, lo stesso Latini aveva spiegato: “Il nostro spettacolo domanda l’appuntamento con un pubblico, che ha visto e conosce l’Arlecchino servitore di due padroni di Goldoni-Strehler, ma anche altri lavori dello stesso regista o comunque si è formato attraverso i codici del teatro strehleriano”.
Forse solo un eccesso di zelo o uno di quei dubbi che prendono, a volte, coloro che, bersagliati da una raffica di testi e sotto testi, rimandi, codici e simbologie, di cui si avverte che, forse, se ne sta cogliendo solo una minima parte, si scoprano a chiedersi che effetto farebbe guardare quelle stesse scene con altri occhi. Cosa resterebbe se non si fosse stati fin da subito ammaliati dal movimento instabile del palco-sopra-al palco, capace di dire al tempo stesso Venezia, ma anche della caduta/battesimo e rinascita dello Zanni in Arlecchi-no e della caducità di un modo di fare teatro, allora, probabilmente giunto al capolinea, nonché struggente omaggio alla precarietà costituzionale della macchina-teatro, in cui i movimenti degli uni non possono che ripercuotersi negli equilibrismi degli altri? Lo spiega bene il capo comico Orazio/Latini, enunciando all’ex poeta ed ora aspirante comico Lelio/Marco Manchisi i parametri del nuovo modo di recitare fra cui quello stare in ascolto, che l’escamotage scenografico traduce in questo segno tangibile. Cosa, se non si godesse dei dettagli del gioco sapiente delle maschere, indossate a sublimate dagli attori nei rispettivi personaggi, con una capacità mimica e una prossemica sapientemente amplificata al punto da non aver più bisogno di sciorinarci la tediosa teoria sottesa? Cosa, se questo modo jazzato di snocciolare gli eventi ci avesse fatto un po’ smarrire fra i diversi piani narrativi? La trama racconta di un capo comico, che intende proporre un nuovo modo di fare teatro alla sua compagnia; certo, sarà rischioso, ma è un interesse di profitto che lo spinge, sia perché in compagnia mancano alcuni ruoli basilari per poter recitare commedie di carattere alla vecchia maniera, sia perché prevede che questo nuovo modo piacerà al pubblico pagante. Quel che ne segue non è una narrazione lineare o realistica, ma la sublimazione forse onirica e destrutturata delle prove quale messa a punto del nuovo metodo: assistiamo alle resistenze, perplessità e dinamiche fra gli attori di fronte a un approccio tanto differente. Folgorante, ad esempio, il cameo della Bucci/Rosaura a proposito della nuova figura del suggeritore, capace di restituirci tutto l’angoscioso smarrimento di fronte a questo vacuum primigenio, pur nella leggerezza della modalità ironica e quasi farsesca o le meravigliose interpretazioni di Marco Sgrosso specie nel ruolo di Eleonora a duettare a colpi di trivialità con Lelio/Pulcinella/Marco Manchisi, perfetti tipi umani più figli del colorito popolino partenopeo di Totò o di De Berardinis, che delle stereotipate maschere del vecchio teatro. Così, in questa sorta di back stage ante litteram, Goldoni/Orazio/Latini trova occasione per esporre non solo i contenuti, ma anche le ragioni – economiche? moralizzatrici? elevanti? di primo abbozzo psicologico dei personaggi? – della riforma, in un caleidoscopio di dinamiche rese pienamente fruibili e godibili da attori dalle capacità eccellenti.
Ecco, forse è questo, quel che resterebbe comunque. Al fondo del preziosismo della macchina scenico-registica di Latini, delle citazioni, dei rimandi e delle trovate sceniche certo d’impatto, ma poi anche di senso, quale il costante tornar a ronzare della moscheta – chissà forse omaggio, almeno nel nome, a quell’antesignano, che fu Ruzzante -, lazzo, sì, e pure socratico tarlo e miccia d’innesco all’azione liberatoria ed evolutiva dello sparo, quel che resta, dicevamo, sono le prove di attori quali raramente si ha occasione di vedere: Stella Piccioni, Marco Vergani, Savino Paparella e Francesco Pennacchia, accanto allo stesso Roberto Latini e ai già citati Elena Bucci, Marco Sgrosso e Marco Menchisi de Le Belle Bandiere. Latini li incastona in una cornice fatta di rimandi a eccellenti maestri, pulizia e bellezza d’immagine, guizzo, gioco (quelle scarpe da tennis…) e intuizione fulminea ma non per questo di minor verità, entro cui si dipanano le luci ed ombre di un passaggio così delicato. Non si tratta tanto della specificità di come fare o non fare teatro; quel che racconta è in vece di un’esigenza moralizzatrice quale conditio sine qua non per un salto quantico verso il Teatro d’Arte; in filigrana la dichiarazione d’amore per il teatro, mestiere tanto esigente e totalizzante, quanto emozionalmente generoso, che, come nel doppio lieto fine della commedia “Il padre rivale del figlio”, trionferà, sì, ma con tutto il suo portato di falso lieto fine. Perché la vita, si comincia a capire, è più complicata di quei generi stereotipati e triviali, capaci di risolver tutto con un’ilare manganellata. La vita è in quella verità così profondamente umana, ricca e contraddittoria, magistralmente restituitaci dagli scarti linguistici e dialettali, dai subitanei scoppi e repentini mutamenti d’intenzione di questi personaggi così modernamente ben cesellati e magistralmente restituiti da un siffatto cast.
Piccolo Teatro Grassi
dal 20 febbraio al 25 marzo 2018
Il teatro comico
di Carlo Goldoni
adattamento e regia Roberto Latini
scene Marco Rossi
costumi Gianluca Sbicca
luci Max Mugnai
musiche e suono Gianluca Misiti
con (in ordine alfabetico) Elena Bucci, Roberto Latini, Marco Manchisi, Savino Paparella, Francesco Pennacchia, Stella Piccioni, Marco Sgrosso, Marco Vergani
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
...blogger per voyeristica necessità!
- Sempre più Tournée da Bar(do)! Quando il teatro si fa intelligente e sostenibile… - 8 Giugno 2018
- La guerra dei Guinea Pigs agli atti di bullismo e trasgressione - 25 Maggio 2018
- Lo struggente Cantico di Latini Premio Ubu - 18 Maggio 2018