Kobane, quando il teatro politico fa rima con casa e ironia

In scena al Teatro Libero di Milano dal 2 al 13 maggio 2018, “Kobane” è la prima produzione di uno spettacolo vero e proprio da parte di TLLT /Teatro Libero, Liberi Teatri (nelle due passate edizioni il sostegno era andato al festival “Buon Compleanno, Calvino!”, nel 2016, e, nel 2017, a “Sogni Possibili”, rassegna degli spettacoli prodotti all’interno della scuola di teatro Teatri Possibili). Già da qualche anno, infatti, la compagine di residenze urbane si unisce per sostenere il progetto di coabitazione e cogestione delle stagioni dell’omonimo teatro e, finalmente, questa sinergia si concretizza in un prodotto finito, molti dei cui partecipanti fanno capo a una delle residenze; infatti non solo Fabio Banfo, l’autore di “Kobane”, è socio fondatore della compagnia Effetto Morgana, ma anche Manuel Renga, regista dello spettacolo, lo è di Chonos3, oltre ad essere co-direttore artistico del Teatro Libero insieme a Corrado Accordino, fra gli attori in scena e a sua volta membro de La Danza Immobile/Binario7 di Monza.

Qui l’idea è non soltanto prendere fra le mani temi scottanti quali i foreign fighters (ovvero i volontari stranieri arruolatisi tra le file dei miliziani ribelli alle truppe governative siriane), la jihad (guerra protesa al “miglioramento di sé”, sia nella valenza intellettuale interiore, che etero rivolta… fino al limite estremo della “guerra santa”) o l’integralismo islamico; l’idea, qui, è di fare politica nel senso più intimamente legato a quel fare teatro, che è attività per sua stessa natura ecumenica, fin dai tempi della tragedia greca, per riflettere su di sé e su dove stia andando. Così politico è sia il progetto residenziale di auto sostegno, laddove la pulsione a fare teatro sia più urgente dell’effettiva erogazione dei finanziamenti pubblici, sia il desiderio di raccontare la realtà attraverso occhi inevitabilmente deformanti, ma, proprio per questo, capaci di mettere a servizio di altri il proprio punto di vista.

La scrittura di Banfo è felice, in questo: tratteggia personaggi da commedia, che riesce ad ammantare con un’ironia sottile in grado di andare a segno. La vicenda è quella di Maria, laureata in lingue orientali e poi diventata foreign fighter a seguito di un viaggio a Kobane; eppure pare che non sia lì, la sua jihad. “Ci sono più jihad in cielo e in terra – dice Maria, nel frattempo divenuta Fatima, all’amico di famiglia segretamente innamorato della madre – di quante ne contenga la tua filosofia…”, in cui è evidente la parafrasi storpiante della celeberrima battuta dell’Amleto. Ed è proprio questo, il punto di forza: una scrittura capace di mixare citazioni letterarie e spauracchi storici (ininterrotto è l’esilarante riferimento/allarme del Professore ai vari popoli barbari, che premono ai confini dell’impero), trasformandoli in arguti non-sense dall’evocatività surreale e che non mancano di squarciare inaspettati portali fra piani differenti. A sciorinarli è soprattutto il Professore ovvero l’anziano padre della ragazza, affetto da Alzeihmer, nel cui delirio tutto si mescola. Così, in questa Babele dello spirito, prima ancora che del pensiero e della memoria (come non vedere, in ciò, una stilettata alla nostra cultura sempre più dimentica di informazioni, che tanto facilmente invece consegniamo a gadget esterni), è lui – meglio: la sua malattia – a dettar il metodo. Bravissimo, qui, Accordino, nel non facile equilibrismo fra una dotta disabilità, chissà fino a che punto reale e quanto invece cavalcata, e l’escussione di quella umana fragilità, a cui vengono esposti gli anziani, nelle loro impietose disabilità. Accanto al suo delirio, la moglie Elena (una misurata e convincente Silvia Soncini) a tirar le fila, barcamenandosi fra marito demente, figlio adolescente e il ritorno a casa della figlia data per dispersa in Siria.

La guerra santa non è lì, sembra dirci la stessa scenografia (di Aurelio Colombo), che divide lo spazio con una cartina del mare nostrum disegnata in trasparenza dice subito Velo del Tempio mentre separa il sancta sanctorum da ciò che gli si agita davanti: là il luogo inaccessibile, spesso occupato dai deliri del Professore (e chissà quanta saggezza invece non ci sia nel suo farneticare), qui le umane vicende fatte di piccolezze prosaiche, grandi abbastanza però a dar corpo a singoli micro drammi. I personaggi, psicologicamente tutti ben delineati, incarnano gli stilemi del contemporaneo. Così la moglie di estrazione alto borghese, colta, ironica, bella, accogliente ed emancipata, in fondo non lo è abbastanza da non essere rimasta affascinata dal Professore, poi marito, di cui ha pazientemente sopportato i tradimenti di una vita intera; eppure ancora si strugge per questa sua nuova forma di assenza che è l’Alzheimer, rifiutandosi di metterlo in un istituto; il figlio Teo – interpretato dal giovane e pur convincente Daniele Vagnozzi – è l’emblema dell’adolescente: dal piglio vagamente distaccato e ostentatamente accondiscendente di chi la sappia lunga, di fatto tenta solo di dissimulare il proprio sentimento di umana inadeguatezza con un’ironia pungente e un apparentemente imperturbabile spirito di sufficienza. Lo smaschera presto, l’amico di famiglia Carlo/Vincenzo Zampa: “Sei meno critpico di quello che sembri. Osservi tutto, registri tutto…”, gli dice, inaugurando con lui un rapporto simil paterno, che in fondo ci parla dell’eterno bisogno di certi ruoli per poter sviluppare modelli di attaccamento sani; inoltre apre uno squarcio – con la dialettale pacatezza di un antieroe, ma che Zampa sa colorare di spontanea simpatia -, sulla tematica del divorzio, del rifiuto e dell’immagine di sé, dando occasione al ragazzo di fare altrettanto, rispetto al proprio forzato coming out. E poi c’è lei, Maria alias Fatima, tutta piena di una rabbia e di un risentimento, che sembrano aver poco a che fare con quell’amore per Dio, in nome del quale è pronta a compiere la sua personale jihad fino al limite del sacrificio estremo. Valentina Cardinali la interpreta con toni spesso urlati e indisponenti come di chi tutto sappia, di nulla dubiti e niente tema, tipico degli invasati o dei giovani: inevitabile il conflitto, specie col fratello, in cui torna il leit-motiv dell’adolescenza più come intransigenza ed incapacità di evolversi, categoria dello spirito moderno, che non in quanto età anagrafica; non mancano neppure le virate sulla cronaca e la più o meno fanta politica o le occasioni per affrontare tematiche ideologiche, in cui è davvero difficile stabilire da che parte stiano il torto o la ragione. Eppure il tutto avviene a volo d’uccello come si conviene ad una commedia di certo affilata, ma che sceglie di mantenersi nell’ambito dei “lieto fine”, nonostante tutto, affidandosi a una scrittura che procede per cortocircuiti spiazzanti e a regia lucida e garbata nel condurre attori e pubblico.

Così, mentre tutto viene via via sempre più invaso dalla sabbia – questa, l’immagine esplicita -, ci accorgiamo che il vero deserto è più spesso quello delle relazioni entro le mura domestiche; eppure se è la casa a rimanere il vero medio oriente di terra e sangue, chissà che, guardando a quel mediterraneo conteso, non ci si sorprenda a vagheggiare: “E il navigar m’è dolce in questo mare…”. Chiosa sentimentale? Forse, ma cosa rende, la vita, degna di esser vissuta, se non giusto questo scambio affettivo relazionale, così inestinguibile da imporci di antropomorfizzare a sua immagine cose, animali e dei?

Francesca Romana Lino

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