Esattamente 130 anni fa nasceva ad Ales, un paesino nel cuore della Sardegna, Antonio Gramsci. Esattamente un secolo e un giorno fa, il 21 gennaio 1921, alla vigilia dei trent’anni, Gramsci prendeva parte alla fondazione del Partito Comunista d’Italia. Nel 1921, all’indomani della Grande Guerra e dell’ultima grande pandemia, il mondo si apprestava ad affrontare sfide epocali per la democrazia, la geopolitica, l’economia e il rapporto di fiducia tra istituzioni, giornali e cittadini. Una situazione che negli scritti di Gramsci risuona per molti versi simile a quella attuale.
L’intento del progetto 130 Gramsci (link ufficiale) ideato dall’APS ProPositivo di Macomer (qui un report dall’edizione 2017 del Festival della Resilienza) e promosso con Fondazione Casa Gramsci e diversi altri partner, consiste nel coinvolgere l’opinione pubblica, i media e le organizzazioni della società civile, non tanto per commemorare il pensatore o le sue appartenenze politiche, ma piuttosto per avviare una riflessione collettiva su come i valori del pensiero gramsciano possano adattarsi in chiave contemporanea per guidare l’Italia, l’Europa e il mondo attraverso le sfide che il post-covid e il 2021 ci porranno di fronte, sviluppando: approfondimenti, inchieste, foto e video reportage, iniziative artistiche, culturali e sociali che da oggi ci accompagneranno per tutto l’anno.
Fattiditeatro è partner del progetto 130 Gramsci e collaborerà alla sezione “Gramsci è Teatro Sociale – come il mondo teatrale odierno commemora il pensatore e ne fa vivere l’esempio” a cura di Simone Pacini e Azzurra Lochi.
L’anima multidisciplinare, “organica e integrale” del pensatore sardo lo ha portato ad occuparsi di costume, società, teatro e musica, lavorando e scrivendo come critico per diversi anni. Avvenimenti che lo condurranno a ridefinire il concetto di intellettuale dal campo amministrativo, a quello informativo e artistico. Andremo alla riscoperta della concezione gramsciana sull’arte e il teatro, considerati come «una necessità buona dello spirito» capaci di mettere a contatto «il presente con l’avvenire, i dominatori cogli oppressi, il sistema sociale dell’oggi colle ardite speranze del domani». Apriremo il sipario sull’amore per il teatro coltivato da Gramsci riscoprendo il suo pensiero e la sua esperienza attraverso la storia e le opere contemporanee a partire dalle riflessioni di giovani drammaturghi tra cui Giacomo Sette. Proseguiremo intervistando la Rosso un Fiore, APS nata per organizzare le attività del Coro Inni e Canti di Lotta della Scuola Popolare di Testaccio, che sta lavorando alla realizzazione dello spettacolo Il Partito, opera musicale di Fausto Amodei tratta da “diario di trent’anni” di Camilla Ravera, e ad un almanacco connesso al lavoro. Indagheremo insieme al collettivo artistico Tessuto Urbano la centralità della relazione tra Luogo e Comunità, considerata necessaria da Gramsci per la formazione dell’essere umano.
Inauguriamo la collaborazione con 130 Gramsci con un contributo inedito del drammaturgo Giacomo Sette: Esegesi Sragionata (tre brevi flussi di coscienza per Antonio Gramsci) concepito, dai primi confronti con Azzurra Lochi, come un essere in divenire che possa crescere e camminare, che non si può fermare alla pagina scritta, ma ha necessità di trasformarsi e assumere altre forme per liberarsi e far viaggiare il suo racconto, a iniziare da una piccola traccia audio sperimentale in cui verranno coinvolti diversi artisti.
Esegesi sragionata (tre brevi flussi di coscienza per Antonio Gramsci)
Flusso I: Capodanno
Da ragazzino erano i baci rubati
che quando dici baci rubati sai esattamente che vuol dire
cioè che non ti aspetti con gli occhi lucidi
brillanti, le gocce tipo i cartoni – le gocce scintillanti
quando mi sono fatto il buco al naso coi botti m’è saltato il piercing
era sempre una corsa, una corsa pazzesca
sulle terrazze condominiali, barbecue e salsicce col fumo in bocca
per il gelo nelle campagne di gente che non conosci
pomiciate in ascensore – tutto una corsa, una corsa
le corsie, gli scaffali, spesa alcolica, pessima vodka
gente che piange, bestemmie, proviamo a scoparci tra un divano e un cicchetto
prati alti che si credono alberi, l’alba sui tetti – giocare coi cani come fossimo cani
GRAMSCI:
Ogni mattino, quando mi risveglio ancora sotto la cappa del cielo, sento che per me è capodanno.
Ogni giorno mi sveglio e sto sotto al cielo, mi sembra di ricominciare da zero.
Mi si apre davanti tipo un vortice chiaro, è ora di cominciare davvero.
Per me è capodanno nihil novum sub sole, è così.
Non è che si finisce e si comincia – è un’ illusione. Odio i capodanni, pensa Antonio Gramsci.
Non so se allora avessero i fuochi e cosa dovessero sembrargli,
piccoli dèi olimpici e scintillanti. Se da quel buco tra i fogli dove lo tenevano
i fascisti si scambiassero ogni primo dell’anno dei dolci o cose semplici
che li facessero sentire là fuori: di nuovo liberi o solo scivolasse come le barche
laggiù da qualche parte, un altro giorno un’ altra notte
tutta uguale, tutto uguale a sempre.
Questo fatto che ogni trentuno si faccia tabula rasa,
dal giorno dopo si ricomincia, si ricostruisce, si ricompone tutto
il tempo non si stoppa, procede è un’avventura o una punizione
in base a come ti è andata, quello che è successo un giorno di pace
sotto ombrelli di luce per poi ricominciare a precipitare, forse così gli
doveva sembrare.
Pensa a questa grande magia, magari diceva a una guardia o al compagno,
su qualche foglio perduto che qualcuno s’è tenuto, attaccato per generazioni
nel salotto, in un cassetto: piombiamo qui sulla Terra, incastri dell’evoluzione
ci inventiamo le stagioni, poi i mesi, le ore. Un calendario per ogni continente.
Questa forza spaventosa che c’ha la gente di finire e ricominciare
anche se la vita è una cosa che inizia e finisce. Ti rendi conto?
Un metallo a caso tipo l’oro gli abbiamo detto tu sei tutto deciderai
chi non ce la fa e chi invece è ricco, beni rifugio, rifugio per chi? Rifugio perché?
Chi l’ha deciso? Ha deciso il tempo di dividersi in giorni e in ore? Chi ha deciso che – cristo, si sarà detto Antonio Gramsci, quindi come funziona? Si azzera tutto? Magicamente, scende un tizio lì all’orizzonte, dondola come un fiocco di neve e ovattato si posa sui nostri letti quando dormiamo sfiniti uguali a ieri la notte tra il trentuno e l’uno e ci soffia nelle orecchie l’uomo nuovo che saremo la versione migliore ideale finalistica di ciò che siamo. Quello che non siamo mai stati, che non saremo mai. Cos’è? Dov’è? Il sortilegio, dico. L’incantesimo. Ci fanno diventare muli, ciuchi e ci legano un bastone sulla schiena, camminiamo in cerchio all’infinito per la carota e la carota è – la persona, il riflesso migliore di me.
Gli intellettuali di ieri sono sempre tremanti, incerti, sudati, incavati, ma sicuri. Nelle foto ci sembrano dei cessi a pedali, ma chiamiamo gli attori più belli per interpretarli. E sono così maledettamente moderni, quanto è vintage dire maledettamente, come fosse il pessimo doppiaggio di un pessimo film d’azione.
E io penso che i film d’azione Gramsci li avrebbe adorati. Gli Intellettuali li amano, i film d’azione. Quelli veri, di intellettuali. Che non hanno una cultura della distanza, ma sono organici, sì, alla massa. Che stanno dentro, in mezzo alle persone, ma non come succede alla televisione, non sono tutte Lubich, angeli incarnati proiettati misticamente dal cielo, troni luminosi di cui Iddiopadre si priva, con ottime attrici di contorno. No, non hanno un’ aura, non sono luminosi, non c’hanno quella patina dei telefilm tedeschi, vividi, asettici, con le luci sempre a palla, ma persone. Pavese è impazzito per una ragazza più giovane. Gente che mangia la carne, Camus che adora il pallone – ma tutto questo Gramsci non lo sa, come direbbe qualcun altro. È il 31 dicembre di un anno a caso che è ancora vivo e sta al gabbio, e vede le facce degli altri. Sono come lui. Persino i secondini ci somigliano un po’. È come nelle emoticon, gli occhi sottili e lunghi all’ingiù, la bocca ferma, immobile, una linea. Tutti gialli. Ittero o solo tristezza. Indefinita. Romanticamente diremmo ricordi ma forse odio per la vita che procede là fuori. Mi manca quello e quella e mi manca l’amore. I figli, le mogli, i padri, le madri, fratelli, sorelle, cugini, gli amici. Io non credo brindassero allora, come brindiamo noi. Non potevano. Ma forse guardavano il futuro tutti stretti, ridendo come degli scemi. Se pensi ai nonni dei nonni anche se hanno fatto guerre e rivoluzioni te li vedi con la pelle liscia, color seppia, innocenti – più o meno il modo in cui c’immaginiamo primitivi e medievali, greci e romani no, quelli li vediamo sempre supersaggi, barbe lunghe, corazze, molta consapevolezza. Tutti gli altri so’ dei bambinoni. E allora guardiamoli così, che è bello, pure a Gramsci voglio vederlo così. Un ragazzino in gabbia. Vorrebbe scopare, mangiare cose buone, prendersi una pezza, fare promesse che non può mantenere. E anche lui, starebbe affacciato lì, al domani. A guardare là davanti come la gente nei cartoni, sagome nere davanti a luci infinite e bianchissime. Chissà com’era il futuro, che aspetto c’aveva allora. Se era salvifico o fangoso. Magari, visto che era molto tempo fa, il futuro si vestiva sempre bene, puntuale quando lo aspettavi, smagliante al trentuno dell’anno, tutto luccicante di promesse, di oro e sol dell’avvenire, di Uguaglianza e trionfo del lavoro sul commercio, di ribaltamento, rivalsa.
Flusso II: Socialismo
GRAMSCI:
Dicono che la cronologia è l’ossatura della storia; e si può ammettere. Ma bisogna anche ammettere che ci sono quattro o cinque date fondamentali, che ogni persona per bene conserva conficcate nel cervello, che hanno giocato dei brutti tiri alla storia. Sono anch’essi capodanni. Il capodanno della storia romana, o del Medioevo, o dell’età moderna.
E sono diventati così invadenti e così fossilizzanti che ci sorprendiamo noi stessi a pensare talvolta che la vita in Italia sia incominciata nel 752, e che il 1490 0 il 1492 siano come montagne che l’umanità ha valicato di colpo ritrovandosi in un nuovo mondo, entrando in una nuova vita. Così la data diventa un ingombro, un parapetto che impedisce di vedere che la storia continua a svolgersi con la stessa linea fondamentale immutata, senza bruschi arresti, come quando al cinematografo si strappa il film e si ha un intervallo di luce abbarbagliante.
Perciò odio il capodanno. Voglio che ogni mattino sia per me un capodanno. Ogni giorno voglio fare i conti con me stesso, e rinnovarmi ogni giorno. Nessun giorno preventivato per il riposo. Le soste me le scelgo da me, quando mi sento ubriaco di vita intensa e voglio fare un tuffo nell’animalità per ritrarne nuovo vigore.
Nessun travestitismo spirituale. Ogni ora della mia vita vorrei fosse nuova, pur riallacciandosi a quelle trascorse. Nessun giorno di tripudio a rime obbligate collettive, da spartire con tutti gli estranei che non mi interessano. Perché hanno tripudiato i nonni dei nostri nonni ecc., dovremmo anche noi sentire il bisogno del tripudio. Tutto ciò stomaca.
Anche Gramsci, forse aspettava il futuro. Per lui non c’aveva il cilindro, o i denti d’oro. Non era una Chadia Rodriguez con più voglia di vivere, (quello è il mio), no: Gramsci c’aveva degli occhiali speciali, con la montatura d’acciaio, lenti in vetro temperato che non si rompono manco se le schianti dai palazzi, che ci vedeva in mezzo alla nebbia, al fumo denso del Novecento, e con gl’infrarossi, invulnerabile agli ultravioletti, alle bombe, all’atomica, al Vietnam, ai body counting, alla Ford e tutto il resto, individuavano e tracciavano ‘sti passi nella storia che prima o poi e prima o poi, prima o poi, che sicuramente prima o poi e certamente prima o poi, avrebbero spalancato le prigioni, dato a ciascuno libro e sentimento, disciolto le nazioni in un grande consiglio comune, tutti felici senza essere stupidi, con la fatica, il rigore, la serietà, la calma che servono per vedere il mondo a colori, per essere davvero migliori, per cominciare un anno nuovo che sia nuovo sul serio, sì, che sia nuovo per sempre, senza dubbio, intensamente. Che sia nuovo per l’epoca che segue, che la inaugura: straordinaria, uguaglianza e libertà e la pace inesorabile che ne consegue. Quella cosa incredibile che cambierà il mondo, magari tra un millennio, ma lo farà e senza dèi o carismatici incubi ombrelluti che dondolano giù dal cielo. Quella cosa incredibile che aspettiamo da duecento anni e che tra duecento, magari – quella cosa senza padroni, senza maestri che nessuno s’è inventato ed è difficile da spiegare perché sta dentro di noi da sempre quella cosa che è Socialismo.
Flusso III: Futuro
GRAMSCI:
Aspetto il socialismo anche per questa ragione. Perché scaraventerà nell’immondezzaio tutte queste date che ormai non hanno più nessuna risonanza nel nostro spirito e, se ne creerà delle altre, saranno almeno le nostre, e non quelle che dobbiamo accettare senza beneficio d’inventario dai nostri sciocchissimi antenati.
Ho un vaso qui vicino con una piantina grassa mezza storta, non siamo mai riusciti ad infilarla nella terra fino in fondo. La tengo sopra un disco di una registrazione rarissima dei Death In June. Ci metto le dita, nella terra, uno, l’indice, sicuro, come se fossi esperto, per sentire a che profondità sia ancora umida. È una pianta che m’ha regalato il mio amore, ci tengo. Non voglio che si faccia male, che si secchi, che si consumi, che caschi, marcisca o s’annerisca o che io l’affoghi perché ho paura di perderla. Mi resta l’umido sul dito, i grani di terra scura e smossa. C’era il qualche detective in una serie che l’assaggiava per capire dov’era andato chissà chi. È inverno, è dura. Per la mia piantina grassa. Per tutte le piantine grasse. Dice: < sono abituate al deserto, di notte nel deserto fa pure meno trenta>, dice:
< sipperò di giorno al deserto fa più cinquanta e col calore raccolto, calore naturale di sole, sopravvivono alla notte>, la mia poi mica è nata nel deserto. St’estate imperiava davanti alla finestra che dava a valle, inconsapevole del buio, del rigido del mondo, le nascevano foglioline tutte intorno e la terra era di un bel castano, sembrava una ragazza che dorme. Non aveva idea, non sapeva ci sarebbe stato il gelo, la terra che imbianca slavata come una vecchia insonne. Le foglioline sono sparite, forse risucchiate da quei grumi biancastri che sembrano quasi legna o cenere, la luce che prende è di tenda, le rimbalza addosso da una lunga veranda del palazzo davanti. È cambiata di casa e non c’è più la valle. E il calore è di termosifone. Il vaso è sempre lo stesso, l’amore mio l’aveva dipinto d’oro non so se con la bombola o il pennello o il pennarello quello con la punta grossa non gliel’ho mai chiesto, dovrei farlo? Ora deve superare Gennaio, poi Febbraio e Marzo. Tenere l’umido più a lungo che può e io verrò ogni due settimane o tre ad aggiungergliene altro. La tengo vicina, non so se può sentirmi, ma tieni duro va bene? Non la zeppo d’acqua per paura che muoia di sete, come quelli che ingozzano i gatti per non affamarli. Senti, io ti lascio qui davanti alla finestra più luminosa che posso e quando c’è bisogno ci sono. E ti nutro in prospettiva, sapendo che st’estate sarai ancora bellissima, con le foglie intorno e la terra morbida e sensuale. E comunque lei, la piantina, ancora svetta davanti alla tenda, come se fosse sicura che ci arriverà alla sua stagione e tornerà giovane e stupenda. Io ascolto un pezzo di un tizio che si chiama Desert sand feels warm at night.
E forse questa cosa, tutto questo dico – non so che metafora sia eh,
ma tutto questo forse è –
il futuro.
Buon compleanno Antonio Gramsci!
Giacomo Sette
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