“Il teatro che piacerebbe ai miei genitori”, questa è una delle frasi che ripete spesso, Michele Sinisi, quando capita di chiacchierare, anche in modo informale, sulla sua idea di teatro. Racconta di una maniera di concepirlo e poi di farlo, che, lontana da quei sofismi e intellettualismi tipici di certo teatro di avanguardia, ricerca solo un prodotto di qualità, ma che sia al contempo alla portata di tutti. Lungi da esclusioni aprioristiche, credo sia importante determinare la propria cifra poetica, segmentare il pubblico di elezione e focalizzarsi sul modo più efficace per raggiungerlo. E’ un atto di responsabilità: verso se stessi e verso il proprio lavoro – oltre che, appunto, nei confronti degli spettatori. E non significa abbassare la qualità del prodotto; al contrario, dice di un intento di coerenza e onestà intellettuale.
Sulla scorta di tutto ciò s’inquadra “Miseria&Nobiltà”, trasposizione teatrale della celeberrima pellicola con Totò e Peppino – correva l’anno 1954 -, in scena al Teatro Sala Fontana di Milano fino al 3 gennaio. L’idea è quella di riportarlo in scena con tutta la godibilità quasi farsesca degli sketch surreali, della commedia degli equivoci, della comicità immediata ed esilarante di quel cinema neo realista, che pure non risparmiava le sue stoccate di critica sociale. E l’effetto non fatica a sortire che, complice anche un cast di attori decisamente all’altezza dell’intento.
Eppure non è soltanto questo. Non si tratta di una trasposizione pedissequa, ma – il cuore sempre in ascolto di quei “primo spettatore” che sono i genitori di estrazione contadina -, in filigrana la regia ci racconta ben altro. Ci dice della vocazione registica, in quel mettersi, lo stesso Sinisi, in scena, ma come ideale avanguardia del pubblico. Diventa lui stesso quello spettatore che, incantato dalla lanterna magica teatrale, in punta di piedi abita la zona di confine del proscenio con tutta la deferenza eppure con quella libertà quasi infantile, che lo fa sentire autorizzato a passeggiare avanti e indietro sulla ribalta. Come fanno i bambini: spalle al pubblico e sedere all’aria, senza vergogna di sdraiarsi a terra, saltare sull’armadio o inventarsi la più inusuale delle diavolerie alla ricerca del proprio punto di vista. L’occhio strizzato al piccolo Salvatore di “Nuovo Cinema Paradiso”, ma poi anche con tutta la consapevolezza di chi, divenuto adulto, quel gioco non si accontenta più di guardarlo, incantato, sia pur da distanza ravvicinata, ma vuole anche metterci dentro le mani, dirigerlo, agitarlo e possederlo. Quanta della vocazione al teatro, in quella “grande abbuffata di spaghetti”, scena clou del film, diventata poi topos cinematografico di una certa condizione dell’Italia del dopoguerra! Non è un caso che sia proprio lui a scodellarli agli affamati personaggi, in una gigantografica provvidenzialmente calata dall’alto, di cui si fa egli stesso compunto “minestratore”. Ecco, forse questo un po’ l’unico limite – se una pecca la si vuol pur trovare… -: una seriosità di contegno, nell’attore Sinisi, che se ci significa già l’autorevolezza del ruolo registico, forse si sovrascrive in modo troppo coprente alla vocazione ludica e bambinesca sottesa. Poi ci sta che, interpretando Peppeniello – il ragazzetto figlio di una delle due coppie costrette a condividere l’affitto e gli stenti -, lo faccia con tutta la seriosità di un’infanzia, che, allora, era quasi più una sorta di praticantato alla sopravvivenza che non l’età aurea e ovattata di oggi e di tutte le epoche/condizioni di maggior agio economico.
Attorno a lui, invece, i suoi “personaggi in cerca di un autore”, cinguettano e civettano coi vari Felice Sciosciammocca, Pasquale, Concetta – ruoli ch’erano stati di Totò, Enzo Turco e Dolores Palumbo – tanto radicati nell’immaginario collettivo, da riuscire difficilmente eguagliabili. Eppure non mancano all’appuntamento, gli attori. Così accanto al superlativo Ciro Masella, un Pasquale – ruolo ch’era stato di Peppino – dalla versatilità farsesca e caricaturale tale da fargli quasi offuscare il pur bravo ma più dimesso protagonista Felice Sciosciammocca – nel film interpretato da Totò, qui da Gianni D’Addario -, ruotano una corte di ottimi compagni di ventura. Sono Diletta Acquaviva/Concetta, Giuditta Mingucci/Bettina, Donato Paternoster/Luigino/Vincenzo, Stefano Braschi /Don Gioacchino/Don Gaetano, Francesca Gabucci/Pupella, Giulia Eugeni/Gemma e Gianluca Delle Fontane/Eugenio/Ottavio, di cui segnaliamo il superlativo numero del disvelamento della farsa fra padre e figlio – scena non solo godibile, ma dall’impegno anche fisico e tecnico non da poco, in quelle continue giravolte del siparietto-guardaroba, ma che l’attore ha saputo tenere e sciorinare con una disinvoltura invidiabile – , oltre a Stefania Medri, una Luisella immensa nella scena della rediviva a fine farsa. Di Gianluca Delle Fontane si segnalano anche i costumi, quanto mai vivaci e azzeccati nel sottolineare la farsa nella farsa – come in un gioco di rilanci all’ennesima potenza – e tutta la struggente veridicità di quel mondo di un teatro itinerante, fatto di eccessi e lustrini stipati in un baule sempre in viaggio e di argenteria, afferrata con gesto rapace e furtivo, a sciocchi parvenus in vena di ostentazione – qui sagacemente rappresentata dal lampadario di casa di Don Gaetano, a cui Felice strappa uno dei cucchiai/pendagli a significare pure la fame atavica e insaziabile.
Dunque uno spettacolo decisamente godibile e fruibile a più livelli: dalla nostalgica eppur frizzante e ben fatta traduzione teatrale di un classico di Totò, all’apologia della regia. Quanta poesia in quella botola di luce, con cui l’eclettico regista costantemente duetta in modo quasi ipercinetico: ora facendosene scudo, assecondando la vocazione di schivo souffleur, ora, facendola scattare, col suono sordo del ciak cinematografico, nell’irruente movimento di interazione con gli attori. La finzione scenica cade e nel gioco del meta teatro c’è spazio per libere variazioni sul tema e omaggi a altri film. Omaggio al cinema è anche lo schermo bianco su cui provano la celeberrima farsa di cui si racconta pure nella pellicola. E’ un altro pezzo di bravura attoriale e intelligenza registica, non da meno dell’intuizione di adottare un dialetto spinto – e non quello napoletano, come si si aspetterebbe, ma quello dei “padri”, appunto, e cioè il pugliese e, per converso, un emiliano, sconosciuto idioma del Nord Italia, che dice ipso facto di tutta la distanza culturale e antropologica, quasi, delle due “padrone di casa” costrette comunque a convivere in quella situazione di disagio.
Il risultato? Applausi a scena aperta e un pubblico – di critici, anche, venuti a Milano in occasione della Prima – divertito e partecipe. Così, parafrasando Pirandello: “A ciascuno il suo” ovvero: il “teatro che piacerebbe ai miei genitori” come una variante di quel “teatro d’arte per tutti” auspicato da Paolo Grassi.
“Miseria&Nobiltà”, dal testo di Eduardo Scarpetta, al Teatro Sala Fontana fino al 3 gennaio.
Elsinor Centro di Produzione Teatrale
Teatro Sala Fontana
Dal 15 dicembre al 3 gennaio
Miseria&Nobiltà
dal testo di
Eduardo Scarpetta
regia Michele Sinisi
scritto con
Francesco M. Asselta
con
Diletta Acquaviva
Stefano Braschi
Gianni D’addario
Gianluca delle Fontane
Giulia Eugeni
Francesca Gabucci
Ciro Masella
Stefania Medri
Giuditta Mingucci
Donato Paternoster
Michele Sinisi
aiuto regia
Domenico Ingenito
Roberta Rosignoli
scene
Federico Biancalani
direzione tecnica
Rossano Siragusano
costumi
Gianluca delle Fontane
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