Buenos Aires dell’anima mia
Atterro. Freddo. Arrivo in una giornata di sole, rigida come l’inverno che non mi aspettavo. Ad attendermi c’è una delle istituzioni argentine che preferisco, il remis. Mauro mi accompagna per l’oretta di strada che ci separa dalla città nella sua macchina, con la quale arrotonda il mese grazie ai clienti che, secondo il sistema consolidato del passaparola, prenotano passaggi a tutte le ore per le destinazioni più svariate. Altro che Blablacar. Come tante altre economie sommerse locali, il remis è diffusissimo in tutto il paese e a volte è un affare di famiglia. A Mauro, che studia odontoiatria all’università ed è all’ultimo anno, i clienti glieli passa suo padre, remisero anche lui, per portarli a spasso tra una lezione e l’altra.
La New York latina
La mia prima tappa è nel quartiere Florida Vicente Lopez, a nord della città, nella cosiddetta Gran Buenos Aires ovvero tutta l’immensa distesa di urbanizzazione che non viene considerata Capital ma già Provincia, perchè Buenos Aires, letteralmente, fa provincia, con 14 milioni di abitanti nell’intera area metropolitana. E’ grande, già, è grande in tanti sensi Buenos Aires, la misura della sua grandezza te la dà soprattutto la frenesia delle persone – l’opposto del cliché del sudamericano rilassato abusato dagli europei e residuo di tempi coloniali – il suo tempo ritmo è più vicino a quello di New York che a quello delle nostre capitali europee. Autobus 24 ore su 24, librerie e ristoranti aperti fino a tarda notte, persone che lavorano con i turni più svariati, strade chilometriche che cambiano nome tre o quattro volte, anfratti bui e immensi parchi. L’accozzaglia architettonica, la quantità di cavi elettrici volanti – intere bobine attorcigliate ai pali di legno – e le insegne in spagnolo e italiano, molte delle quali dipinte a mano, mi ricordano che siamo nella parte sud del continente. Quella che preferisco.
E poi il profumo. Quell’aria particolare che mescola il carbone delle parrillas con il timido affacciarsi delle fioriture degli alberi paraíso ovvero le jacarande dai fiori lilla acceso che costellano i marciapiedi della città e che ora iniziano a schiudersi. Arrivo a fine settembre ed è l’inizio di una primavera fredda e umida quello che mi accoglie. La prima volta che prendo la combinazione di autobus e metro che mi porta in centro ci metto un’ora e quarantacinque minuti ad arrivare a Plaza de Mayo, beccando tutte le coincidenze. Passeggio senza perdermi subito, grazie al senso dell’orientamento che come un uccello migratore mi fa ricordare strade e percorsi anche dopo anni di distanza, ed eccola lì. Buenos Aires dell’anima mia.
Anima cosmopolita, cuore mediterraneo
Sotto un cielo plumbeo per niente tropicale percorro le strade del Microcentro, il quartiere degli affari con i suoi grattacieli in stile art nouveau, la Casa Rosada – sede del governo – e i caffé gremiti di gente per un café con leche rigorosamente accompagnato da due medialunas, ovvero piccoli cornetti, serviti da camerieri con camici bianchi dal colletto inamidato. E’ come la ricordavo? Non saprei dirlo, una parte di me non se n’è mai andata, anche se sono passati ormai tre anni dall’ultima volta che sono stata qui. Al primo tavolino dove mi siedo per raccogliere le idee arriva, dopo pochi minuti, un flut di champagne offerto dal proprietario del locale, un signore attempato che non si rassegna all’idea – moderna – che una ragazza possa starsene seduta al bar a rimuginare tutta sola. Nonostante lo accetti per cortesia e continui a scrivere i miei appunti a testa bassa, insieme al conto mi fa arrivare il suo numero di telefono con un accorato messaggio: Quando tornerai? Lo sguardo languido con il quale mi segue fuori è quello del professionista, pronto a ricominciare la serenata con la prossima cliente non accompagnata. New York si allontana lentamente e la mia mente ritrova altre latitudini, più mediterranee e viscerali, machiste e popolari con un leggero gusto retró da film in pellicola.
Jorge Dubatti e le micropoetiche
In un’intervista Jorge Dubatti, importante intellettuale e critico teatrale argentino, ha definito la realtà teatrale contemporanea del suo paese come un insieme di “micropoetiche“, per la grande varietà e particolarità delle proposte e degli universi artistici presenti, tanto numerosi e diversi tra loro da rendere impossibile una classificazione di gruppo. Egli sostiene che ognuno di questi artisti porti con sé un mondo, una poetica ma con una specificità tutta personale e non riconducibile a modelli universali o internazionali, una micropoetica appunto. Secondo Dubatti non è possibile fare paragoni né decidere un ordine gerarchico che determini l’importanza di un artista rispetto a un altro, sono tutti importanti ed è l’insieme delle micropoetiche che forma il vasto panorama culturale della città del quale dobbiamo accontentarci di cogliere quello che possiamo nel tempo che abbiamo, senza pretendere di ottenere una visione d’insieme.
Per me lo stesso principio è applicabile alla città, con i suoi quartieri tanto diversi e ai suoi abitanti, i porteños, una micro-umanità molteplice, variegata, in contatto e in continuo distacco, che si contamina e si esclude a vicenda. Una popolazione che oggi è il frutto di incontri tra genti originarie di posti lontanissimi tra loro e che qui hanno portato le loro storie e le loro abitudini: italiani, giapponesi, tedeschi, polacchi, spagnoli, francesi, russi, creoli provenienti da altre zone del continente e nativi originari, tutti hanno mescolato sangue e tradizioni dando luogo a un fermento creativo e culturale da noi sconosciuto. Rifletto su questo mentre cammino per Avenida Corrientes, la Broadway argentina, strada lunghissima costellata di teatri, librerie, sale concerto e mentre passo davanti al Teatro San Martín vedo gli attacchini fissare i manifesti del FIBA sulle vetrine dell’ingresso. Tra pochi giorni inizierà l’undicesima edizione del Festival Internazionale del teatro di Buenos Aires e finalmente, dopo lo stordimento fisico ed emotivo dell’arrivo, per un attimo mi sento nel posto giusto al momento giusto.
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