La guerra dei Guinea Pigs agli atti di bullismo e trasgressione

Se pensate che uno spettacolo come “Atti di guerra”, in scena a Milano, a  Zona K, nelle due sole date del 23 e 24 maggio 2018, abbia a che fare coi conflitti mondiali o qualcosa del genere, resettate tutto; questa prima produzione della compagnia meneghina Guinea Pigs (che le valse il Premio della Giuria Giornalisti a Giovani Realtà, ancora nel 2015), tratta di tutt’altro. Di guerra si parla, sì, ma di quegli scontri, che avvengono nelle zone d’ombra di vite apparentemente ordinarie, fra dinamiche sociali a un soffio dal bullismo e dalla trasgressione, dove violenza e prevaricazione sono solo variabili insensate, ma non così recondite.

Lo spettacolo giustappone due episodi assolutamente irrelati: le due drammaturgie di Giulia Tollis in comune hanno solo la tematica della violenza e della sua assurda gratuità, specie all’interno di dinamiche di gruppo, dove il branco sembra assumere i contorni di un Leviatano spaventoso per la sua auto arrogata impunibilità. È questa, l’idea che muove il progetto di Riccardo Mallus, che se ne assume anche la regia, affidando a Betti Rollo la coreografia dei movimenti; il registro è destrutturante e dichiaratamente anti-naturalistico e, se dal punto di vista narrativo alterna presa diretta e soggettiva (recitando anche le didascalie, i sottotesti e i pensieri che il terrore lascia inespressi), da quello squisitamente registico, scompone le azioni con l’effetto di sublimarne la violenza. Pare quasi che l’intento primario sia tutto rivolto alla valenza estetica dell’azione (anche da un punto di vista sonoro, oltre che dell’immagine coreografata), pur a discapito di un’etica, rispetto alla quale si sceglie di assumere una posizione di imparzialità. Sono fatti di cronaca – reale o possibile, poco conta -, questi atti di guerr(igli)a urbana; e la loro restituzione asettica sembra volerne smorzare la componente voyeristico-morbosa, anche grazie alla contestualizzazione quotidiana e alla recitazione realistica, che ne banalizzano l’eventuale portata mitica.

Nel primo quadro assistiamo alla storia di una Colombina adolescente contemporanea, civettuola e di carattere quanto la sua illustre omonima, e di un Arlecchino, ragazzo della consegna-pizze, che della maschera della Commedia dell’Arte conserva solo un’ingenuità, dimentica, però, di quel minimo di furbizia di chi sia abituato a dover sopravvivere. Benché non abbiano una vera e propria relazione sentimentale (su questo ha buon gioco, il branco, nell’innescare dinamiche di aggressione manipolatoria del singolo anche grazie alla lusinga dell’annessione nel gruppo), si appartano in un parchetto; qui vengono sorpresi e assaliti da un gruppetto di coetanei nullafacenti, auto regolamentatisi in una struttura di stampo militaresco. Vorrebbe essere uno stigma del bullismo, questo, e del cyber bullismo, ma, se è efficace nel descrivere le dinamiche di violenza e sopraffazione, le feroci gerarchie di umiliazione dell’oppressione e la più totale incapacità di empatizzare tipiche di queste dinamiche, i soli riferimenti alla tecnologia sono gli sms che la ragazza invia al malcapitato rimasto nelle grinfie del branco (e a cui i teppistelli rispondono con tono canzonatorio, una volta messo ko il malcapitato) e la ripresa dell’aggressione fatta col cellulare: troppo poco, forse, per aprire ad una riflessione sulle reali conseguenze di un siffatto uso di questi strumenti. E poi, a chi si rivolge, questa narrazione? La recitazione forse un po’ stereotipata e l’eccessiva semplificazione delle situazioni/appiattimento psicologico dei personaggi sembrerebbero aprire a un pubblico di teen agers; eppure resta il dubbio di un’eccessiva sbrigatività nel trattare gli argomenti. Il finale, poi, sembra mozzo: gli aggressori come sono arrivati dal nulla, nel nulla, senza motivo, scompaiono; neppure una persistente durata del loro atto, che possa giustificare quest’abbandono immotivato e repentino.

Il secondo, quadro, poi, è drammaturgicamente ancor più ostico. Racconta di tre giovani uomini in una casa presa in affitto solo per fruire dei servizi di una squillo; quel che ci vien mostrato è un corpo a corpo con gli stereotipi sociali, che ciascuno si porta dietro, oltre che con i ruoli di maschio, che ognuno dei tre declina a modo proprio: eppure, in questo duello, sembra essere la donna-oggetto la dominatrice reale. La narrazione ce li presenta con caratteriste proprie, anche se iconicamente sono vestiti con lo stesso intimo grigio a significarne l’intercambiabilità sostanziale: cosa fondamentale, per cementarne la dimensione di branco, la cui forza passa anche attraverso il sentirsi parte di un tutto. Dopo le prime scaramucce, ecco che ciascuno si butta nel suo personale confronto con lei; ed è qui che la narrazione si fa criptica: le didascalie recitate scandiscono fra piano di realtà e quello che poi effettivamente succede, ma i due ambiti si mescolano a tal punto da non distinguere cosa stia realmente accadendo e quale sia invece il retro pensiero del lui di turno, come l’epilogo mostrerà in modo esplicito. Ancora una volta, vorrebbe essere un quadro della sciocca supponenza di un certo cameritismo maschile e dell’insensata violenza di chi creda di potersi arrogare determinati diritti – qui, in quanto sanciti da un rapporto di tipo economico contrattualmente regolato –, anche dissimulandoli attraverso il bon ton delle convenzioni sociali. Eppure quel che non consente di dichiararla un’operazione perfettamente riuscita sono la scrittura non sempre totalmente intellegibile oltre che un registro incapace di affondare in una direzione netta (realista? Grottesca? Onirica? Francesco Martucci ha una recitazione dalla prossimità vertiginosa al colloquiale quotidiano, Marco De Francesca e Letizia Bravi sfoderano una tecnica, che sa più di accademia, mentre Federico Manfredi arriva ad una maestria che davvero avrebbe potuto permettere di far decollare verso altre suggestioni, se non fosse stato il solo a snocciolarla con tanta godibile nonchalance). Gli spunti non mancano e nemmeno le felici intuizioni di scrittura oltre alle soluzioni registiche; chissà che riprendere in mano i singoli episodi, portandoli a dignità di pièce compiute, non possa portare i Guinea Pigs a inaugurare un progetto articolato sul tema.

Francesca Romana Lino

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