Celestini e il suo pueblo di toccanti anti-eroi

Non c’è ombra di dubbio: è un eccellente contastorie, Ascanio Celestini e tale si è riconfermato anche in “Pueblo” in scena al Teatro Franco Parenti di Milano dal 24 al 29 aprile 2018.

Sul palco solo le tende un po’ ingiallite di una casa dal sapore gucciniano – vengono in mente le atmosfere povere del suo “Il Pensionato”, anche se poi l’evocazione vira sulle corde più oniriche e surreali di “Ballando con una sconosciuta” -, a proteggerci dall’altro, dal vicino, dal dirimpettaio. Poi uno scroscio di pioggia diventa preziosa occasione per introdurre uno dei motivi ricorrenti con cui, da narratore navigato qual è, Celestini sa che è bene tornare a riagganciare gli ascoltatori. Inizia così a sciorinare immagini, ma anche formule (quasi apotropaiche), con cui ordisce un fraseggio fatto di reti gettate e poi raccolte… e di nuovo gettate e ancora una volta ricondotte a sé, in un gioco quasi di domesticazione, a cui il pubblico si abbandona volentieri.

Già il primo quadro è un ossimoro. Una vecchia tv di quelle che nessuno oramai guarda più e una pentolina rossa, adatta giusto a una zuppa liofilizzata, sono le povere cose sul tavolo della cucina in trasparenza alla tenda; scopriremo poi che, quasi in un controcampo a specchio, questo è invece quel che si potrebbe vedere, spiando attraverso i vetri del dirimpettaio. Eppure il discorso evocativo ha una portata titanica: la pioggia battente, che continua in sottofondo, ci viene spiegata provenire dallo scontro, in pieno oceano, di enormi correnti dalla temperatura diversa, che innesca i moti ascensionali dalle piogge. Produce un rumore udibile fino alla fascia di Van Allen; quasi lo stesso suono sordo, si affretta a rincarare Celestini, prodotto da centinaia di piedi intenti a percuotere ritmicamente la terra nella danza della pioggia. Quel che chiedono non è solo che il prezioso liquido scenda a dissetarne l’arsura; credono che, in quelle gocce, ci siano gli spiriti stessi degli antenati defunti. “Bambini, stanno arrivando i nonni”, bisbigliano fra loro indifferentemente adulti e piccini, perché tornano tutti bambini di fronte ad un evento così eccezionale. Infondo è questo, quel che ci chiede anche Ascanio Celestini: di tornare bambini e restare ad ascoltare, con animo sgombro, quello strampalato racconto di anti-eroi dalla goffaggine poetica e dalla libertà a-teoretica come quella di una favola ribelle al nesso causaleEppure non è solo fantasia. “Ne sai qualcosa?”, chiede, incuriosita, la voce bambina (del figlio Ettore), ma che fuoriesce dal nerboruto Gianluca Casadei (il musicista in scena con Celestini). “Io niente, ma, se vuoi, ti racconto tutto…”, risponde Ascanio padre a innescare il meraviglioso gioco dell’immaginazione e dell’empatia, della narrazione e del mettersi nei panni di.

 

La storia è davvero surreale, ma ipnotica. Inizia quasi con un gioco, ad ingannare la noia della giornata di pioggia, eppure si rivelerà essere un gioco serio, per dirla alla Escher. Già perché quel che Celestini fa, in fondo altro non è che provare a immaginare la vita degli altri – chissà, forse per scoprire quel punto di contatto in cui, guardandosi allo specchio, ciascuno di noi si scopre terribilmente identico all’altro-da-sé. Così, spiando quelle due figure al di là della finestra, le immagina una più giovane (che chiama Violetta) ed una più anziana (sua madre), la prima ciarliera come l’altra era stata in gioventù, mentre ora cucina, silenziosa e rassegnata, un’eterna zuppa liofilizzata alla figlia, che parla, parla… soverchiando anche il ronzio di una televisione, che ormai nessuno ascolta più. L’indomani inizierà a lavorare come commessa al supermercato, immagina: sarà la regina della cassa con tutto il portato fantasioso di clienti/sudditi, che presentano doni e denari a questa sovrana gentile e irreprensibile: in filigrana già il germe della denuncia. Inizia così, questa favola per strati – o, forse, gironi –: una sorta di scatola cinese, in cui all’uscita da quel supermercato, insieme al padre morto, che indefessamente attende, accompagna e protegge la cassiera-regina, c’imbattiamo in lei, Domenica. Di fatto una senzatetto, una di quei fantasmi che nessuno quasi vede e a cui di certo pochissimi rivolgono anche solo un frettoloso sguardo, ma che si trasforma, nella fascinazione affabulatoria di Celestini, in un personaggio a tutto tondo. Ha la liricità surreale di certe evocazioni alla Fellini e, come lei, il suo amore Said, turnista di colore, prezzolato a cottimo per il carico/scarico e movimentazione merci durante l’orario di chiusura del supermercato. Eppure questa favola non rinuncia a stigmatizzare – con prosaica ironia, pungente ma garbata – lo sfruttamento e la sicurezza sul lavoro, ma anche la dipendenza da alcool e da gioco, con cui ad esempio Said (che significa “Fortunato” , ci tiene, Celestini, a ribadirlo, nella sua deriva ironica) riempie il poco tempo liberato; incanta, la rievocazione del dramma dei migranti morti in mare che, come ombre impalpabili della stessa sostanza dei nativi e dei loro piedi battenti a invocare la pioggia, chiude il cerchio sull’incontro fra le culture. Detta così, già sembra tanta roba – “Troppa?”, vien da chiedersi -, eppure Celestini rilancia, immaginando chi sia, quella Domenica costretta a vivere ai margini feriali della rimozione collettiva. L’ironia, qui, si fa più feroce, quasi a sottolineare che i drammi non sono solo quelli di cui sopra, già in qualche modo presi in carico dalla coscienza civile. Della piccola Domenica si tratteggia un quadretto forse un po’ troppo sdolcinato, stucchevole e dal sapore naïf, ma che non può non farci cogliere l’evidente rispecchiamento di Celestini fino ai limiti dell’identificazione con la ragazzina. Vessata da padre e poi presto orfana, affidata ai servizi sociali e poi in un odissea di istituti monacali degni delle peggiori evocazioni ottocentesche e successivi collocamenti lavorativi sempre in odor si sfruttamento e molestie, come possono far specie i suoi agiti autolesionistici? C’è tutta l’indignazione di chi si fa portavoce di tragedie annunciate e silenti o, peggio ancora, taciute, colposamente sconosciute e colpevolmente rimosse, in questo “Pueblo” di anonimi, a cui Celestini cerca di dar voce, ma, prima di tutto, dignità e poesia.

Il cantastorie Celestini e il maestro Casadei di certo hanno un egregio modo di porgerci quella fabulazione, che è la storia e la coscienza di ogni civiltà; quasi a chiedersi: “E noi – che assistiamo e non assi-stiamo a tutto ciò -, in che senso possiamo dirci civili?” A tratti si scivola un po’ nella retorica, ma, se un fattivo com-muovere è il fine del teatro civile, chissà che non possa ritrovare un senso il mezzo che passa fra pancia e cuore.

Francesca Romana Lino

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