Cesar Brie a Milano: due regie a confronto

La stagione 2013-14 di Campo Teatrale presenta, fra l’altro, un’interessante rassegna di regie di Cesar Brie a Milano: così, dopo “L’albero senz’ombra” – dal 16 al 19 gennaio –, i primi due weekend di febbraio sono stati dedicati alla doppia rappresentazione di “Orfeo ed Euridice” – di cui l’argentino è anche drammaturgo – e, a seguire, per chi lo desiderasse, ancora “La Mite” – adattamento, sempre suo, da un romanzo breve di Dostoevskij.

Vediamo. Due pièce diverse, in parte: già per il solo fatto di essere, l’una, sua creazione a tutto tondo; l’altra, invece, confronto con un autore classico: con tanto di poetica, linguaggio ed immaginario propri. Oltre a ciò, interessante il fatto che, invece, la tematica non sia poi così disaffine: in entrambi i casi abbiamo a che fare con la materia viva e palpitante di un amore di coppia segnata e compromessa sia pur da contingenze differenti.

Orfeo ed Euridice
Orfeo ed Euridice

Le trame. “Orfeo ed Euridice” racconta la storia, tutt’altro che mitica, dell’ amore delicato fra due giovani – che s’incontrano, come capita, quasi senza neanche accorgersene, e che piano piano s’innamorano, si sposano e creano una vita insieme. Poi l’elemento di rottura: l’incidente – raccontato: ed amplificato nell’emotività –, che inchioda un amico di lei alla carrozzella; di qui la promessa scambievole di non assecondare un eventuale accanimento terapeutico, qualora qualcosa d’irreparabile dovesse accadere ad uno dei due. E Giacomo – questo il suo vero nome – promette: pur nella consapevolezza del peso schiacciante della richiesta, ma non desiderando altro che di assecondare i desideri di Giulia. Ovviamente da lì a poco sarà chiamato a render conto della parola data. Un incidente riduce Giulia in Euridice – “Non viva, non morta…”: “Stato vegetativo inconscio”, la diagnosi – e, quello stesso, fa di Giacomo Orfeo – “Un vivo nella terra dei morti”, i parenti di  siffatti pazienti  -, a combattere un assedio di 17 anni fino a riuscire ad espugnarla, la sua causa del Diritto a morire. Bravissimi, gli attori : Giulia Viana quanto mai convincente, specie nella parte della lunghissima permanenza nello stato vegetativo, e Giacomo Ferraù generoso e commovente nel fornire le spoglie mortali alla personificazione della dedizione d’amore. In filigrana, la regia. Intanto una scenografia essenziale: una passatoia grigia, in diagonale, da fondo palco – delimitata da una sedia/luogo di coscienza di Giacomo già Orfeo: specie nelle fasi della rigorosa rivendicazione di un’eutanasia esplicita e legalmente riconosciuta – che scorre trasversale verso il cuscino/letto simbolo della loro tenera intimità di anime, anzitutto – “Cosa dire per dire Amore?” si chiede Giulia: “Non il bacio, ma il tempo fra i corpi…”, bisbiglia, accovacciata su di lui che già dorme… Una seconda sedia – questa volta in fondo a destra: dunque dal lato diametralmente opposto alla prima ed ortogonalmente al cuscino – diventa il punto da cui muove Euridice: srotolando un lungo lenzuolo/sudario candido – la luce, qui, ne enfatizza l’effetto -, che rende in modo efficace quel cammino verso la luce, negatole dall’accanimento terapeutico – bellissima l’immagine di lei, appena dopo l’incidente, con la pellicola trasparente a soffocarle il volto e che silenziosamente inizia ad intonare la sua prece inascoltata: “Lasciami andare…”. Ed è un florilegio d’immagini delicate e pittoriche, questa prima regia: il primo incontro fra i due – al rallenty: per ritagliare un tempo alla voce narrante -, le scene di tenera intimità sotto le coperte – dove l’incontro quasi sempre mancato con l’altro enfatizza il tenero attaccamento del dormirsi addosso -, ma anche quella camminata a ritroso di Euridice – sull’altra passatoia: quella bianca… – a significare una prevaricazione ottusa, nella sua violenza, e certo contraria all’ esplicite volontà della giovane. E tutto il tempo delle amorose cure e delle battaglie di Orfeo – ben 17 anni, ci si racconta… – viene restituito a centro palco: su quella linea maginot, che s’innalza sul nodo nevralgico in cui il piano della vita – la passatoia grigia – impatta su quello della morte – il lenzuolo bianco. Bellissima l’immagine del tempo che passa – una delle tante restituzioni di scene di ordinaria fisioterapia, ma che s’impreziosisce col dettaglio del borotalco e delle linee del tempo che passa a restituirceli, in pochi istanti, con tutto il peso e la stanchezza di quell’estenuante battaglia; e, ancora: quella efficacissima di lui, a terra con le gambe distese, che trascina il corpo di lei facendo forza sulle sue sole braccia: eccola, la barca di questo Caronte controcorrente! Sa giocare sui toni delicati di un’empatia voyeristica, questa pièce: musiche new age che strizzano l’occhio alla cetra del mitico Orfeo, luci dirette e senza equivoci, cromia elementare dei costumi – il nero per Caronte, il blu per Orfeo, il rosso per Giulia, il bianco per Euridice… – ed un senso di struggimento ch’è esattamente quello stesso raccontatoci dall’improbabile comico Caronte, all’inizio, nell’introdurre la storia. “Di te diranno ch’eri la Bella Addormentata…”, le dice; “Di te diranno che mi hai uccisa…”, sussurra lei; eccolo, il senso di questo “Orfeo ed Euridice” in salsa Brie; a dar nuova luce ad un archetipo.

La mite
La mite

Ben altri i toni, invece, e le connotazioni de “La mite”, in cui tutto è giocato sul rigore – la trama ed il volutamente austero protagonista, del resto, lo impongono. La sensazione che pervade è quella della durezza. Il tavolo – continuamente reinventato a significare gli oggetti clou della drammaturgia – si trasforma in un dispotico coprotagonista: ora è il portone del loro primo incontro e poi si capovolge per diventare quell’esercizio di equilibrismo in cui – con efficace allusione alla vita coniugale – lui l’accompagna, tenendole la mano; e – ancora – è il banco dei pegni rovesciato a far rotolar via i pochi spiccioli: immagine del disprezzo della giovane nei confronti di quel marito usuraio, sposato quale male minore. E poi diventa il letto di ferro – nella separazione del talamo nuziale, dopo il tentato assassinio da parte della giovane -, in cui lei divora la sua colpa sfiorata espiandola in una lunga e per lui penosa malattia. Poi sembrerebbe che il peggio sia passato e che i due possano trovare un loro equilibrio di coppia. E’ proprio sopra quel tavolo che lui finalmente le si confida; ma lei, seduta con la sedia su quello stesso tavolo, canticchia – come fa di solito, quando lui non c’è, rivelandogli, così, la sua distanza. Lui balza giù dal tavolo: in preda all’euforia di recuperare i passaporti per la vacanza promessale; anche ne lei scende: ma scivolandone lungo la superficie come da quella finestra da cui si getta, sopraffatta da un amore tanto asfittico.

Oltre al tavolo, la regia gioca su un altro non personaggio: c’è il rigido usuraio – Daniele Cavone Felicioni: bravo nel riportarne l’austerità di facciata, così come il pathos dei fragili turbamenti taciuti -, c’è la sposa bambina – Clelia Cicero: che riesce ad interpretare la bisbetica sottomissione col piglio dell’adolescente – e poi c’è il manichino di lei: un replicante fin da subito seduto al tavolo – all’inizio posto in un angolo, a fondo scena: perché poi l’occhio di bue si possa accende sul protagonista, sul lato opposto della ribalta -, a significare la presenza mite di lei; ma anche quale spunto – in lontananza – dell’affiorare del flash-back. Fisso, nella sua rigidità lignea, è solo nelle ultime scene che diventa protagonista: di quel ballo in cui lo conivolge lui – quell’amore felice a lungo programmato e mai vissuto: e che, una volta rivelato, ha schiantato la ragazza con la sua vertigine -, ma anche di quel gioco di rispecchiamento della giovane: in qualche modo proiettatasi – depersonalizzandosi – in una mitezza sottomessa, che, forse, non le corrispondeva. In definitiva, l’invenzione di due éscamotages efficaci, certo, ma un po’ forse ancora farraginosi: come tutto quel ansiogeno movimento scenico, che, se da un lato ben restituisce la sottile ansia esistenziale del protagonista, per altro verso risulta forse ancora un po’ troppo macchinoso ed innaturale.

Francesca Romana Lino

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