Reduce da sei mesi di tournée, “Il servitore di due padroni” – regia di Antonio Latella – conclude le repliche all’ Elfo Puccini di Milano, dove resta in scena fino al 30 marzo. “Arlec…chi? No!”: questa, l’ipotesi di lettura in fondo inscritta nel copione di quel Truffaldino, il cui nome torna a scomparire dal titolo della pièce, per lasciar affiorare il duello fra tradizione, inveramento, rivoluzione (semantica) e decostruzionismo.
E c’è tutto, in questa sapiente riscrittura scenica di Ken Ponzio/Latella.
Intanto la storia: più o meno quella di Goldoni. Il gioco degli equivoci per cui è solo per una felix culpa che Clarice/Elisabetta Valgoi, figlia di Pantalone/Giovanni Franzoni, sembra poter convolare a giuste nozze con Silvio/Rosario Tedesco, figlio del Dottor Lombardi/Annibale Pavone, anziché col promesso Federico, della cui uccisione giunge notizia all’albergo in cui sono convenuti gli ospiti: Brighella/Massimiliano Speziani a far da gran cerimoniere e Smeraldina/Lucia Peraza Rios, la servetta – secondo i tipi della commedia dell’arte – da testimone. Ma a complicare la vicenda ecco comparire Beatrice/Federica Fracassi – sorella di Federico – a fingere i panni del fratello e promesso sposo, per rivendicare la dote della fanciulla: ad introdurla il suo servo – zanni, secondo la tipizzazione della commedia dell’arte; meglio: secondo zanni, ovvero il servo sciocco, laddove il primo, quello arguto, è invece interpretato da Brighella – Arlecchino, appunto. Di lì a poco sopraggiungerà anche Florindo/Marco Cacciola, amante di Beatrice nonché assassino di Federico,a sua volta sotto le mentite spoglie di Orazio: e per un ambiguo gioco si troverà a servire anche lui. Fino a qui, in sintesi, il recupero del pretesto goldoniano. Ma c’è davvero molto di più, in questo tipo di operazione quasi ideologica.
Intanto c’è il recupero di una tradizione – quella della commedia dell’arte -, ma inserita all’interno di un percorso di ri contestualizzazione già sperimentato nel secolo scorso. Inevitabile pensare all’ “Arlecchino” di Strehler, anche se qui la chiave di lettura è ben altra. Se di sorriso si vuol parlare, qui non si cerca quello liberatorio di un’epoca post bellica, ma, al contrario, la smorfia beffarda e dissacrante di quel Joker della comunicazione interpersonale, che sembra essere cifra dei rapporti (anche) della nostra società. Sintomatici, in questo senso – e per ragioni opposte – i personaggi di Florindo – icona pop della contemporaneità: rappresentante di creme di bellezza, iper sessualizzato e narcisista, una via di mezzo fra un bisbetico Don Giovanni ed un capricciosa starlette da reality – e Clarice – intrappolata nel clichet della bella sciocchina, ma capace di acquisire uno spessore ed una profondità differenti, grazie all’incontro col timido damerino Silvio (dice di lui: “E’ timido…si emoziona.. si blocca… parla come le pagine stampate di un libro antico”; e non a caso in scena è vestito con un costume del “700) e con quel Federico, che la apre ad orizzonti inattesi. E’ questa un’altra cifra della regia di Latella che, scolorato Arlecchino in un completo assolutamente bianco – del resto come quello dei primi zani/servi, compreso quel Pulcinella, che ne fu la trasposizione partenopea -, gli dona intensità cromatica attraverso le relazione forte con gli altri personaggi (dai costumi non a caso d’intensità monocromatica…), fino a ricostruire la tavolozza delle tonalità del suo esserci. Ed è così che lo scopriamo servo, fratello, amante, ingannatore, manipolatore, ministro/folletto di morte – secondo la tradizione nordica dell’ Hellequin -, in un nodo gordiano, che solo un’azione risolutiva in senso catartico può sperare di sciogliere. Bravissimo, Roberto Latini nel sostenerne la performatività fisica e mimica di questo personaggio sintesi di tradizione teatrale e suggestioni/inquietudini post moderne: dove il fazzoletto bianco, che è maschera – anche funeraria – e cappello a seconda dei casi, diventa pure quella feroce convenzione, che – Rockerduck docet – può ben essere divorata, ma mai una volta per tutte. Stessa plasticità la ritroviamo in Massimiliano Speziani: un Brighella gran cerimoniere, a cui è affidato l’ apparentemente metateatrale ruolo di recitare le didascalie – geniale: entro l’interfono, che, deformando ed amplificando le azioni sceniche, diventa suo precipuo strumento d’indagine fino a trasformarsi nell’illuminante stetoscopio, con cui ausculta i rapporti promiscui che si consumano al di là delle porte chiuse. E poi ancora la Fracassi, mattatrice nel farsi uomo, donna, amante, amica, incesto, calcolo e pulsione: in quel ménage a troi col fratello, sì, e con l’amante – non a caso: l’uno dall’identità svilita del servo e, l’altro, del conquistatore, ma che poi confluiscono in un gioco in cui all’incesto si assomma l’omosessualità e tutta la sconclusionata commistione di un oggi, in cui il vero tabù forse resta soltanto la normalità -, ma che non può non coinvolgere la stessa Clarice, invischiandola in rigurgiti da cui solo l’anacronistico Silvio sembra restar estraneo. Bravissimi tutti: dall’ipnotico Cacciolla alla giovane Lucia Peraza Rios, toccante in quel monologo-canzone, che però forse risulta al fine un po’ lungo.
Spiazzante, ma nel senso evolutivo del termine, l’idea latelliana di partire da un classico per condurre il pubblico per mano fino alle regioni alte del dubbio destrutturante e della messa in discussione, forse, di un teatro-menzogna che, pure, proprio in questo contiene il suo shakesperiano momento ed intento di verità.
Al Teatro Elfo Puccini di Milano:
Dal 18 al 30 marzo
“Il servitore di due padroni”
da Carlo Goldoni
regia di Antonio Latella – drammaturgia Ken Ponzio
scene e costumi Annalisa Zaccheria
con (in o.a.) Marco Cacciola, Federica Fracassi, Giovanni Franzoni, Roberto Latini, Annibale Pavone, Lucia Peraza Rios, Massimiliano Speziani, Rosario Tedesco, Elisabetta Valgoi
suono Franco Visioli
luci Robert John Resteghini
produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione, Teatro Stabile Del Veneto, Fondazione Teatro Metastasio Di Prato
...blogger per voyeristica necessità!
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