La Signorina Else di Schnitzler e la “banalità” del Caso Weinstein

Giovane regista spesso in tandem con l’attore Mino Manni con cui forma “I Demoni”, compagnia specializzata in testi e temi dostoevskijani di cui hanno portato un focus anche nell’attuale stagione del Teatro Franco Parenti di Milano, in questi giorni Alberto Oliva lo troviamo al Teatro Out Off di Milano con “La Signorina Else” da Arthur Schnitzler. Solo poche date, dal 17 al 22 aprile 2018, per assistere all’interpretazione che, proprio per questo spettacolo, ha valso alla protagonista Federica Sandrini il “Premio delle Maschere del Teatro Italiano” come Miglior Attrice Emergente.

Questi, i promettenti crediti di uno spettacolo che, debuttato nel 2016, all’indomani del caso Weinstein si colora di altre sfumature come spiega lo stesso regista. Si parla di molestie, già in questa novella del 1924 o, meglio, della profferta di sostegno (economico, nella fattispecie) in cambio di favori sessuali, come si dice, anche se qui la richiesta di Dorsay apparentemente sembra essere solo quella di poter ammirare il corpo nudo della ragazza.

Eppure è molto di più che una versione ante litteram di “Proposta indecente”. Come nel film di Adrian Lyne, già nel racconto schnitzleriano – e nella sua trasposizione teatrale – c’è tutto lo struggimento della protagonista lacerata fra due opposte pulsioni. Se da una parte, infatti, la bella Diana Murphy (Demi Moore) prova ribellione – difficile, di fronte allo charme del miliardario John Gage (Robert Redford), parlare di quel ribrezzo, con la sottesa pulsione di morte, che pervade invece la Signorina Else disgustata dal porco attempato “amico” di famiglia -, dall’altra le guizza immediatamente all’occhio quell’opportunità, che apre alla pulsione di vita. Per contro nel dramma di Else c’è una stratificazione tale da affondare nella ben più feroce critica alla società dell’epoca. Intanto la protagonista qui non è una donna adulta, emancipata e in grado di auto determinarsi – il compromesso, di qualsiasi tipo esso sia, ha un sapore comunque amarissimo, ma non sempre strozza chi vi capitoli alla fine di una disanima lucida e consapevole -, né può contare sull’appoggio di un compagno con cui confrontarsi/a cui appoggiarsi nello spartirsi il peso di una decisione del genere. Else è sola: tale ci si mostra sul palco e tale confessa di essere, in questo ininterotto flusso di coscienza, dove sembra quasi auto compiacersi del fatto di non essere mai stata innamorata, salvo poi arrivare a lacerasi per l’assenza di chicchessia – un fidanzato, un amico, un’amica – a cui poter rivolgere l’estremo saluto, quando sogna il proprio funerale. Else è una spavalda ragazzina di 19 anni, la nipotina povera ospite – come usava – della zia ricca in un lussuoso albergo di montagna; un curioso ibrido fra una bambina capricciosa e una giovane donna, che inizia a prendere consapevolezza della propria forza seduttiva; un’adolescente smaniosa di quell’indipendenza che le consentirebbe di tutto ambire e tutto sperimentare – “Bisogna provare tutto anche l’hashish”, teorizza -, ma che, come il gatto del proverbio di shakespeariana memoria, sa di non poterselo permettere. Così gioca – fleurta, forse -, ma soprattutto si atteggia a quel distaccato spregio, che comunque non la salverà dal crollare, tragicamente, quando le verrà chiesto di fare ciò che la sua natura ribelle aborre. Il suo acquiescente spirito di figlia devota finirà con l’imporle di piegarsi, come la implora la genitrice, alla avances del vecchio porco, come lo percepisce, nonostante sappia che il suo sacrificio non basterà (inutile guadagnarsi il denaro sufficiente a salvare il padre, affermato avvocato accusato di appropriazione indebita: il demone del gioco tornerà a impossessarsi di lui). Così la si percepisce in tutta la sua palpabile tragicità, la posizione di Else: qualunque sarà la sua scelta, non farà che precipitarla nell’abisso della vergogna – o in quanto cattiva figlia (qualora scegliesse di preservare la propria integrità) o di “cattiva donna” (come di diceva, donnaccia o donna dai facili costumi). Ed è chiaro che un j’acuse di questa portata non sta tanto puntando il dito sulle più o meno opinabili ma libere scelte di una singola persona – non ha nulla a che fare col pur odioso compromesso di chi scelga di scendere a patti con uomini spregevoli per tentare una carriera artistica -, quanto su un intero sistema (la società), che ti mette comunque con le spalle al muro. E lo urla, Else, nel suo lucido delirio: “Non è colpa solo di mamma e papà”, inveisce, in uno di quei rari momenti in cui attrice e personaggio sembrano deflagrare la quarta parete dello specchio ed incontrarsi in un sublime tutt’uno. Ma di solito no: per quasi tutto il tempo Federica Sandrini recita. Leziosa – come da personaggio -, garbata, ma in fondo monotona pur nell’ostentazione di una variazione di registri e tonalità, l’attrice si aggira sul palco nei suoi abitini volutamente a modo – c’è forse più vis accusatoria in questa scelta di abiti di scena esageratamente ben fatti, di quanta non ce ne sia nella bella dizione delle invece caustiche parole di Else – al punto che sembra quasi un girare – a vuoto? – anche il percorso mentale, che la precipita invece in gorghi sempre più fatali. Pur bravissima nel non mancare gli appuntamenti con le oscillazioni delle tante altalene che adornano il palcoscenico – bellissima, quella centrale, a simboleggiare il davanzale da cui, per poco, rischia di lasciarsi precipitare; efficace anche quella a lato, che nella scena delle avances di Dorsay, le dondola, obliquamente, ad altezza inguinale, alludendo in modo fin troppo esplicito al reale desiderio del potenziale benefattore -, sembra però muoversi non per un’urgenza intrinseca, ma quasi a ricalcare una partitura mandata a memoria. Così la dirige Alberto Oliva, che decide d’incentrare tutto su di lei; attorno a lei non restano che, a tratti, le voci di quel mondo, forse già trasfigurato dall’effetto della massiccia dose di Veronal assunta per poter fare ciò a cui (si) è costretta, e quelle altalene simbolo della precarietà della sua mente malferma per (giovane) età, ma soprattutto per condizione: di figlia e di donna.

Certo una scelta ben ambiziosa, portare in scena un testo tanto rivoluzionario – specie a calibrarlo coi parametri di una società, che, all’epoca, di sicuro non faceva sconti a un perbenismo delirante -; eppure forse questo non basta a scusare un lavoro che è riuscito solo in parte a restituircelo.

Francesca Romana Lino

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