Il donchisciottesco “Cielo sotto Milano”

C’è un posto probabilmente unico, qui, a Milano: uno spazio teatrale underground nel senso letterale del termine. Di recente conio, “Cielo sotto Milano” respira nelle strutture metropolitane del mezzanino del passante ferroviario di Porta Vittoria, da dove si propone come luogo d’incontro, di scambio, di contaminazione, accoglienza e condivisione. Quasi un avamposto a testimoniare la possibilità e la voglia di umanizzare i non-luoghi di passaggio, di norma attraversati da viaggiatori frettolosi e solipsistici. “Eppure forse un altro modo c’è”, è il retro pensiero de La Dual Band; ed eccolo, il progetto che si apre su più fronti.

Vetrina Centrale vista dai tornelli della metropolitana
Vetrina Centrale vista dai tornelli della metropolitana

In perfetto accordo con la vocazione plurivoca della compagnia, da quest’anno “Cielo sotto Milano” propone una sua stagione che non è solo teatrale, ma include anche musica e cinema, e soprattutto l’avvicinamento del pubblico alla vita nella sua concretezza sociologica e quotidiana e a tutte quelle arti, che a volte rischiano di risultare “difficili” e dunque più respingenti che aggregative.

Già, ma come si avvicina, il pubblico? Riecheggia l’annosa domanda costantemente ripetuta nei vari incontri “di settore”, conferenze stampa o convegni, in cui capita di parlare di teatro. La “soluzione” de La Dual Band sembra essere tanto antica quanto collaudata: una sorta di “panem et circenses”, la cui efficacia era già testata al tempo dagli antichi. Ma non si tratta, qui, di un uso strumentale: nessun dis-togliere da altre e più preponderanti problematiche, quanto un ricordare che una vita incapace di fermarsi a tirare il fiato, di meravigliarsi, divertirsi e godere di quelle piccole grandi gioie, che meritatamente costituiscono il contraltare di una vita operosa, sarebbe “abìoton bìon”, cioè “una vita indegna di essere vissuta”.

La Dual Band nasce dal sodalizio, non solo artistico, del maestro di musica Mario Borciani con l’attrice e regista Anna Zapparoli e prosegue arricchendosi dell’apporto dei due figli, Benedetta e Beniamino, dalla solida formazione professionale, oltre che figli d’arte, ed altri amici dagli analoghi percorsi artistici; così, cavalcando la in molti sensi doppia natura della loro vocazione anche pedagogica, propongono un calendario, che mixa il classico col moderno, l’impegno civile col divertissement, il cineforum con l’avvicinamento alla musica non solo classica, declinandolo anche in inglese – lingua madre della Zapparoli e sciorinata fluently anche dai figli. E poi cementano il tutto grazie a gustosi momenti post spettacolo, dai sapori genuini e dall’atmosfera conviviale, in cui non c’è più lo stacco fra artista e pubblico, ospiti e padrone di casa, ma ci si ritrova tutti insieme nell’abbraccio autentico di un boccone condiviso, innaffiato dalla birra brandizzata “Cielo sotto Milano”, seduti in tavolate tanto “figlie dei fiori”, quanto effettivamente capaci di superare le barriere della misura del civis contemporaneo.

All’interno di questa stagione, qualche sera fa, “Don Chisciotte Amore mio”, trasposizione teatrale di un libercolo scritto dall’attore Angelo Tronca, pure in scena a rappresentare il cavaliere della Mancha assieme al suo fido scudiero Sancho/Michele Schiano di Cola, sotto la direzione di Alberto Oliva. Interessante quel che dice il regista introducendo lo spettacolo: che pochi luoghi avrebbero potuto essere più azzeccati per mostrare al pubblico questo primo studio, perché uno teatro altrettanto donchisciottesco, appunto, probabilmente sarebbe stato difficile trovarlo. Ed è così.

“Don Chisciotte Amore mio” — Angelo Tronca/Michele Schiano Di Cola

Tronca e Schiano Di Cola, infatti, si trovano ad impersonare i due tipi umani dell’idealista, cavaliere senza macchia e “senza paura”, l’uno – quanto meno nella partitura di Cervantes – e prosaico scudiero della poetica della sopravvivenza quotidiana, l’altro. Giocando gigioneschi coi contrattempi di un lavoro certo ancora privo di una definitiva messa a punto, ma anche con le interferenze del luogo – l’altoparlante che annuncia i treni in arrivo o in partenza, il mugghiare sommesso dello sferragliare delle rotaie… -, accendono i registri espressivi, caricandoli, a tratti, di caratteri volutamente enfatizzati. A tratti soltanto, perché in altri sembrano uscire dallo sconclusionato parlare del gioco delle parti per far affiorare il senso di tutto questo. Ce lo dicono bene, rivolgendosi al pubblico con un tono confidente, sicuramente ignari della quarta parete: e che siedano in platea accanto noi, ci chiamino per nome – anche in questo l’eccezionale familiarità del luogo fa il loro gioco – o scrutino i nostri sembianti alla luce fioca di un marchingegno con una lampadina sospesa in punta, poco conta. Il messaggio è quello: non più cavalieri, anche se ancora forse romantici prosaici Sancio, ci rivediamo in quell’ode al formaggio, intonata con tutto lo svolazzante afflato di chi ha fame “non di solo pane”, ma certo anche di coraggio. Già, perché, scrutandoci, ci vedono e ci svelano come delle larve, al punto da concludere: “Noi che siamo rottami, qui dentro sembriamo dèi per il solo fatto di esser sani”. Sono spesso surreali capriole in rima baciata o alternata, le parole di Don Chisciotte, ma poi si trasformano anche nelle repentine ritirate dell’attore, che sembra non tollerare l’ansia da palcoscenico o del drammaturgo, che, stentando a trovare le parole per continuare, cavalca le più comuni leggende. Quella dei due lupi, ad esempio, che abiterebbero dentro di noi: l’uno buono e l’altro cattivo, vince quello che si nutre di più.

"Don Chisciotte Amore mio" -- Angelo Tronca/Michele Schiano Di Cola
“Don Chisciotte Amore mio” — Angelo Tronca/Michele Schiano Di Cola

Forse un testo ancora un po’ sfilacciato e che non ha ben chiaro dove voglia andare a parare, al di là della pletora di luoghi comuni e gag certo divertenti e ben giocate in scena. Anche la regia fornisce il suo apporto, escogitando artifici a briglie sciolte fino al divertissement di trasporre il battibecco dei due, moltiplicandolo e declinandolo nel surreale cicaleccio fra Ronzinante e l’asina, cavalcatura di Sancho, forse non a caso al femminile, a colorarne la declinazione anche nel bisticcio maschio/femmina. Mattatore, Michele Schiano di Cola, scuola partenepea che più di così non si può, avendo recitato anche alla corte di Mimmo Borrelli oltre che in drammaturgie di Massimo Sgorbani. Questo ci portiamo a casa dalla visione di questo primo studio in un luogo “utopistico”, che val certo la pena conoscere.

Francesca Romana Lino

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marzo, 2024

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