Sulla morte e sull’amore: Sheol a L’Arlecchino Errante

Quest’estate al festival L’Arlecchino Errante di Pordenone è stato presentato uno spettacolo molto importante e con un allestimento sensazionale: uno spettacolo a pianta centrale con il pubblico su due gradinate contrapposte, parte integrante della scenografia. Io l’ho visto due volte, la seconda insieme ad un mio amico di vecchia data: Jacopo Angiolini, che è stato mio compagno di studi e adesso è anche un collega. Qualche giorno dopo questa visione in comune ci siamo scambiati qualche messaggio per email. Il risultato ci è piaciuto e quindi abbiamo deciso di pubblicarlo.

Simone Pacini: A questa edizione del festival L’Arlecchino Errante, la mia prima, l’evento clou è stato sicuramente lo spettacolo Sheol ideato da Monika Wachowicz e Jaroslaw Fret. Quest’ultimo, direttore del prestigioso Grotowski Institute, anche insignito del Premio La Stella de L’Arlecchino Errante 2023.

Sheol, in ebraico שאול (Sh’ol), è il termine usato nell’Antico Testamento (Tanakh) per indicare il regno dei morti situato nel “cuore della Terra”. Il sottotitolo dello spettacolo è infatti “studio per morte e amore”. L’ho trovato potentissimo, e anche se avevamo un po’ di remore nel promuoverlo (essendo un argomento non propriamente allegro) alla fine abbiamo avuto il pienone tutte e tre le sere. A te come è sembrato?

Jacopo Angiolini: Intanto partiamo dai dubbi riguardo il tema, forse in contraddizione con l’Arlecchino che dà il titolo al festival. Capisco ma non condivido: in fondo il caleidoscopio di colori che richiama un Arlecchino non esclude le tinte fosche. Che della vita sono una parte, piaccia o meno. Per quanto riguarda lo spettacolo l’ho trovato potente, progressivo nell’andare a fondo e in grado di insinuare riflessioni e dubbi nella mente dello spettatore, o almeno nella mia. Mi hanno toccato e mi sono rimasti addosso alcuni particolari dello spettacolo: i metronomi ed i loro possibili significati, le mascherine respiratorie e l’uso del rumore; elementi presi in mano, usati, trovati inutili eppure ancora usati dalla protagonista al posto di parole o gesti didascalici. 

SP: Ma come? E il rapporto fra Arlecchino e la morte? Ma non l’hai dato l’esame col prof. Ferrone? 😉 A parte gli scherzi, Jaroslaw Fret ha ricevuto il premio quest’anno, oltre che per essere una personalità nel mondo del teatro internazionale, anche per la sua capacità “di alto artigianato e di altrettanto eccellente capacità di formazione e trasmissione.”

Ad esempio lui ha studiato moltissimo, all’inizio della sua carriera, alcuni ambienti folk speciali: soprattutto i canti popolari georgiani e armeni. E anche se questo sembra in apparenza molto lontano dalle musiche dello spettacolo, sicuramente c’è un’influenza.

Parlando delle musiche, ho chiesto al trombonista Marcin ‘Cozer’ Markiewicz quale fosse quella bellissima melodia che lui suona di fronte e in contemporanea al canto dell’attrice. È un pezzo della Sinfonia nr. 3 del compositore polacco Henryk Górecki, ascoltala fa venire i brividi (più o meno al minuto 40).

Per me quello è il momento più emozionante dello spettacolo, lì ho visto la musica, l’arte come respiro, esaltazione ma anche come droga, affanno, fatica.

JA: Il Professor Ferrone: probabilmente sono il peggiore dei suoi allievi! La fatica io l’ho vista nell’insistere sui respiratori, e in senso più metaforico, torno a dire, sui metronomi: prima attivati poi scaraventati giù, poi di nuovo messi in campo e ancora tirati giù come se fossero l’incapacità di adattarsi ad un tempo predeterminato; un rifiuto dell’ansia di perfezione del giorno d’oggi. E poi l’ho vista nelle pietre, ed in genere in quella sorta di “campo detriti” che è in sostanza lo spazio scenico dello spettacolo! Riguardo la musica sono decisamente sulle tue posizioni e aggiungo che è un controcanto fortissimo agli altri rumori, forti e storpiati, che costellano la messa in scena.

SP: Sheol è uno “studio teatrale su morte e amore”. Sulla morte direi che ci siamo, lo spettacolo sembra un rito funebre, ci sono molti richiami all’immaginario della morte. Agli eccessi che la provocano. Invece per quanto riguarda l’amore? Tu l’hai visto? Dove? Forse nello sguardo dell’attrice verso il trombonista, figura complice e inquietante allo stesso momento? Oppure c’è una sorta di divinazione, amore, verso la musica e l’arte?

E poi ho un’altra curiosità: da amante da sempre dei crediti degli spettacoli, leggendo attentamente si trova “ideato da Monika Wachowicz e Jarosław Fret”, che sono anche una coppia nella vita, ma soprattutto “regia, costumi e interpretazione Monika Wachowicz. A te è sembrato uno spettacolo “femminile”? Cioè il punto di vista di chi lo ha messo in scena è neutro o no? Scusa ma come puoi a vedere a elucubrazioni son messo bene anch’io 😉

JA: Se ho visto amore in Sheol? Beh sì! Il fatto stesso di scrivere un pezzo del genere e di presentarlo nella sua enorme forza sono atti d’amore. Mi spiego meglio: “Sheol” per gli ebrei è “il regno dei morti nel cuore della terra” e partire da un concetto del genere per andare in teatro lo vedo come un gesto d’amore, perché il pubblico di un teatro è vivo. Per definizione. Un lavoro teatrale è l’incontro tra la sensibilità dell’autore, dell’attore e di ogni singolo spettatore. In ognuno dei presenti nascono sensazioni e sentimenti diversi, ognuno vede uno spettacolo diverso, percepisce qualcosa che è suo e solo suo. Una rappresentazione che parte dal presupposto della morte per parlarne a dei vivi è un atto di fiducia, e quindi d’amore, nei confronti di chi ascolta. Musica e Arte, che sono di livello, sono gli strumenti di tutto questo mare di impressioni. E per finire, venendo alla tua ultima domanda: L’ho trovato assolutamente uno spettacolo femminile! Fin dal termine “interpretazione”. Partiamo dal presupposto che niente è scelto a caso. Quindi quando si parla di interpretare siamo a una distanza siderale dal semplice mettere in scena. Interpretare significa anche, e forse soprattutto, farsi portavoce e farlo in forma propria; di conseguenza l’ideatrice/regista/attrice influenza e personalizza il testo e soprattutto il suo contenuto.  

In definitiva, non mi hai certo portato a vedere uno spettacolo facile. Perché molto, forse troppo, affidato alla capacità di decifrare dello spettatore. E in base alla diversità degli strumenti che uno ha, cambia anche la lettura.

SP: Non facile, è vero. Ma tutti quelli che l’hanno visto son stati colpiti. Alcuni anche disturbati, certo. Ma se esci da uno spettacolo e ti senti cambiato, diverso, rifletti, t’incazzi, allora direi che ha ancora senso riempire le sale!

Simone Pacini

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aprile, 2024

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