Teatro Akropolis alla Biennale Cinema: intervista ai registi Beronio e Tafuri

La prima volta di Teatro Akropolis a La Biennale di Venezia non è, come forse si potrebbe immaginare, con uno spettacolo presentato nella sezione “Teatro”, bensì con il film documentario Carlo Sini, terzo episodio della serie La parte maledetta. Viaggio ai confini del teatro dedicata a personalità del teatro e del pensiero.

Il film, prodotto da Teatro Akropolis e AkropolisLibri, sarà proiettato infatti alla 79ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia domani giovedì 8 settembre 2022, ore 16.30, all’Hotel Excelsior presso il Venice Production Bridge Meeting Space del Lido di Venezia. L’opera è presentata in occasione della prima edizione del Premio “Cinema&Arts”, ideato da Alessio Nardin e realizzato con la collaborazione di Kalambur Teatro e Ateatro. Nei giorni scorsi ho rivolto alcune domande ai registi del film e di tutti gli spettacoli di Teatro Akropolis Clemente Tafuri e David Beronio.

Simone Pacini: Clemente, David, dopo il teatro e l’editoria dal 2020 avete iniziato un percorso nell’audiovisivo che ha già prodotto tre film documentari su protagonisti dell’arte e della cultura che mettono in crisi l’idea stessa di scena e performatività (i primi due sono dedicati alla coreografa Paola Bianchi e al regista Massimiliano Civica). Perché questa urgenza? Come lavorate sulla regia? Quali sono per voi le sostanziali differenze con il teatro?

Clemente Tafuri e David Beronio: L’urgenza che ci ha mosso ad affrontare questa impresa cinematografica è la stessa che ha sempre ispirato il lavoro per la scena: è l’urgenza di rilanciare i problemi che lavorare ad un’opera d’arte pone. Uno di questi è proprio la questione dell’immagine: qual è il rapporto fra l’immagine che appare sulla scena e quella che appare sullo schermo?  Ma la questione è ancora più filosofica, se vuoi. Qual è la relazione fra l’immagine e l’oggetto che attraverso quell’immagine si offre alla nostra esperienza? Il cinema permette di approfondire queste domande. Di scavare a fondo su alcune questioni che interrogano anche la scena. Sempre che si decida di farlo. Non si tratta comunque di dare delle risposte, ma di mantenere aperte le domande stesse.

Il lavoro sulla regia viene condotto a partire da un processo che mette in luce la relazione che c’è tra l’idea che sta alla base del film e come quella stessa idea viene affrontata nel lavoro dell’artista o dell’autore di cui il film parla. Le parole e le immagini del protagonista vengono messe in dialogo con le immagini che noi giriamo, con una sorta di correlativo (più o meno oggettivo) e le scelte registiche nascono per rendere possibile questo confronto, per temperare questo scontro.

Le differenze fra il cinema e il teatro, almeno quello che facciamo noi,  sono soprattutto nella libertà di giocare con gli elementi letterari. Nel teatro il corpo è al centro del progetto, e tutti gli altri elementi della scena sono funzionali al potenziamento della sua espressività. Nel cinema l’immagine del corpo convive con tutte le altre immagini, non è minacciata da un eccesso di allusioni o di rimandi simbolici. Nel cinema i riferimenti letterari creano un piano di profondità ulteriore, nel teatro invece rischiano di appiattire i varchi che il corpo in scena può aprire. Si tratta in entrambi i casi di lavorare su quanto la letteratura (non la pagina scritta, ma il sistema di rimandi culturali nel quale siamo inscritti) debba o meno sopravanzare sull’esperienza creativa e quindi ricadere nell’opera.

Sini nel suo studio (frame del film)

SP: Nella vostra ricerca da sempre il teatro incontra altre discipline come le arti figurative e la filosofia. Non è un caso che il film Carlo Sini venga presentato a Venezia in una sessione che vede il cinema in rapporto con le altre arti. Ma qual è “La parte maledetta” che dà il titolo al ciclo?

CT e DB: Il lavoro artistico, quello filosofico e quello letterario possano essere condotti al di là degli specialismi e delle distinzioni tra le discipline. Non mettendo insieme le diverse esperienze o collezionando punti di vista. Non si tratta di un approccio multidisciplinare alle diverse fonti del sapere e della conoscenza, quanto piuttosto transdisciplinare, come nel film viene spiegato. La parte maledetta che dà il titolo al ciclo è appunto la trama che è possibile distinguere solo guardando il rovescio di un complicato tappeto. Quello che è possibile rintracciare al fondo del cammino. Al tempo stesso facciamo riferimento anche al significato pensato da chi ha coniato questa espressione, Bataille: con parte maledetta egli intende un dissipare che è al tempo stesso un dispensare, qualcosa che tracima gli orli del suo contenitore. Ma anche qualcosa di incorruttibile e persistente che non può essere consumato, venduto, spezzato dal sistema. Nel caso di questo film affrontiamo la parte maledetta del pensiero e della riflessione filosofica. E questa parte maledetta sono proprio l’arte e il teatro come Sini magistralmente li intende.

SP: Nei crediti del film appaiono i nomi degli altri due componenti storici di Teatro Akropolis: Luca Donatiello e Alessandro Romi (la quinta colonna è Veronica Righetti all’organizzazione). Come lavora una compagnia teatrale alla realizzazione di un film?

CT e DB: Il nostro metodo di lavoro prevede, per i film come per il lavoro in teatro, un profondo coinvolgimento di tutto il gruppo. Condividiamo le idee che sono alla base del lavoro e i percorsi intrapresi per svilupparle. Poi ognuno di noi ha ovviamente un compito specifico.

SP: Il protagonista del documentario è il filosofo Carlo Sini. Come siete venuti in contatto con lui e come la sua teoria ha influenzato la vostra pratica?

CT e DB: Carlo Sini è uno dei pensatori più importanti della nostra epoca e noi da anni conosciamo i suoi libri. Ci siamo conosciuti quando Antonio Attisani, che segue il nostro lavoro fin dall’inizio, ci ha invitati ad un laboratorio di filosofia tenuto da Sini. Così abbiamo cominciato a frequentare Mechrì, il laboratorio di filosofia e cultura che Carlo ha fondato e conduce insieme a Florinda Cambria. Proprio il pensiero come pratica, e non come esercizio libresco o meramente accademico, è l’aspetto del suo lavoro con il quale è stato più urgente confrontarci. Abbiamo poi avuto modo di incrociare i nostri percorsi in diverse occasioni, alcuni convegni che abbiamo organizzato a Teatro Akropolis, repliche di nostri lavori organizzate da Mechrì.

Un frame del film

SP: È stato annunciato il quarto capitolo della serie, che sarà dedicato a Gianni Staropoli, light designer che da vent’anni imprime una nuova direzione alla luce e allo spazio scenico come elementi essenziali di uno spettacolo. Il film sarà presentato in prima assoluta il 4 novembre 2022 a Genova, durante la XIII edizione di Testimonianze ricerca azioni, il festival di Teatro Akropolis dedicato alle arti performative. Che tipo di film sarà? Potete darci qualche anticipazione?

CT e DB: Il film sarà su Gianni Staropoli e al tempo stesso sulla luce. I protagonisti sono due, e le loro immagini si incrociano in un viaggio che è al tempo stesso un viaggio fisico, il viaggio di un uomo che attraversa i luoghi del suo lavoro, e un viaggio attraverso i confini della luce come immagine. Nel suo incontro con le cose, con l’uomo, con la natura. Abbiamo cercato di portare al limite il tema dall’astrazione intesa come espressione massima del concetto. La luce in realtà non c’è, noi ne percepiamo solo il suo effetto. E questa percezione è la rappresentazione nel suo definirsi in modo assoluto. È il buio invece a essere l’unica cosa realmente visibile. E il buio è l’interiorità più insondabile, forse la parte maledetta di ogni cosa.

Simone Pacini

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