Ascoltare. Questa la prima azione richiesta agli spettatori che anche oggi, numerosi, sono arrivati per assistere ai diversi spettacoli teatrali che, quest’anno, durante il Volterrateatro 2011, per una felice intuizione del suo direttore artistico, Armando Punzo, si svolgono tutti all’interno del carcere. Dall’alto delle mura dell’imponente fortezza medicea, secolare luogo di reclusione, generalmente immobile e silenzioso, un fantasma che incombe sulla città, si diffonde nell’aria il potente richiamo di percussioni; i musicisti del gruppo Quartiere Tamburi suonano con energia i loro strumenti, rendono acusticamente presente, viva, l’esistenza come organismo pulsante nel tessuto civile ed architettonico della città di quello che nell’immaginario comune è il luogo della rimozione per eccellenza: il carcere. È questo uno dei primi “buchi nella realtà” – citazione di Deleuze cara a Punzo – che si apriranno davanti agli occhi degli spettatori durante queste giornate, l’ evidente trasformazione, non solo simbolica, ma concreta, dell’asfissiante realtà carceraria, in luogo capace di produrre e trasmettere cultura. Gli spettatori, chiamati a raccolta dal potente richiamo sonoro, cominciano a radunarsi davanti al portone d’ingresso del carcere. I musicisti si affacciano dall’alto delle mura, battono ritmicamente le loro bacchette, si sottraggono nuovamente alla vista e ricominciano a suonare in un ripetuto gioco fortemente coinvolgente. I corpi non possono fare a meno di muoversi; anche i più timidi, magari in modo impercettibile, si lasciano prendere dalla musica. Sguardi verso l’alto, sorpresi, curiosi, divertiti. Applausi. E poi, improvviso, il silenzio. Un gruppo di bambini vestiti di bianco si fa spazio tra il pubblico. Tre bimbe in fila, una accanto all’altra, si dispongono alla fine della rampa d’accesso al carcere, poco prima del portone d’ingresso, pronte per danzare; dietro di loro, due giovanissime musiciste, una al violino e l’altra al sax, si inseriscono nella melodia suonata al pianoforte da un loro coetaneo che, assorto e concentrato sul suo strumento, ricorda il malinconico Schroeder delle strisce di Schultz. Comincia la danza, movenze stilizzate, lievi: le mani sfiorano gli occhi, il cuore, braccia tese verso il pubblico, verso l’alto, in un gesto delicato di offerta, di condivisione.
Candore d’infanzia e di corpi ancora acerbi, cromaticamente interrotto solo dal velluto rosso della piccola panca su cui è seduto il giovane pianista e da un gruppo di palloncini colorati legati alla spalliera della sedia che serve da supporto per il pianino.
Una scena privata di qualsiasi connotazione spazio-temporale, di elementi realistici o didattici che, proprio per questa sobrietà, consente agli spettatori di operare il distacco da sé necessario per entrare in quel “tempo della sospensione” che è il tempo dell’arte, l’unico in cui – così Punzo – “possono avvenire cose che normalmente non avvengono”. Spogliati delle ultime resistenze, lì sulla soglia, gli spettatori acquistano la “leggerezza pensosa” richiesta per compiere questo viaggio “oltre al limitar di Dite”, che non porterà nella fossa dei serpenti, nella dimora dei reietti, ma in un avvincente viaggio nelle infinite potenzialità e possibilità cui può aprirsi l’animo umano.
Silenzioso, un uomo dal viso e dall’abito dipinti a scacchi bianchi e neri [photo: Paolo Pacini] che potrebbe essere uscito da un quadro surrealista esce dal portone del carcere e si aggira lentamente tra i giovani attori-ballerini. Si guarda intorno e con il grande orecchio bianco che tiene tra le mani cerca di captare i rumori della città: grida di gioia e di dolore, parole di scherno o di benevolenza, parole che uccidono o che danno la vita, astiosi borbottii o sapide conversazioni. L’uomo a scacchi chiama a sé i bambini, uno alla volta, e affida loro un compito, sussurrato nelle orecchie, quello di diffondere tra il pubblico, attraverso un passaparola, anch’esso discreto, impercettibile come un battito d’ali, il messaggio chiave del Festival: “Mercuzio non vuole morire”. La frase si spande velocemente tra la folla, mentre l’uomo a scacchi continua a tenere in ascolto il suo grande orecchio bianco. Lo stesso orecchio che, rientrato in carcere, più tardi ascolterà le voci della Compagnia della Fortezza, gli applausi entusiasti di detenuti e pubblico, seduti insieme, gli uni accanto agli altri, in una vicinanza per molti fino a quel momento del tutto impensabile; lo stesso orecchio che, alludendo a chi è chiuso nelle celle o è rimasto fuori, in città, oggi e nelle altre giornate del festival, non potrà fare a meno di ascoltare le voci, i suoni, i rumori che provengono da questa gigantesca fucina d’arte. Tutti, nel bene o nel male, dopo queste straordinarie giornate non potranno più rimanere indifferenti. Il passaparola è ormai inarrestabile: “Mercuzio non vuole morire!”.
Mariella Demichele
Volterra, 29 luglio 2011