Retrospettiva Compagnia della Fortezza: Mercuzio non DEVE morire.

Un’ora e mezza non basta a ripercorrere ventisette anni della storia di una compagnia – non basta, specie se la storia è quella della Compagnia della Fortezza. Fondata da Armando Punzo nell’ormai lontano 1988, è proseguita a spron battente, infilando una serie di lavori partiti dalla tradizione partenopea – “La Gatta Cenerentola” di Roberto de Simone nel 1989, “Masaniello” di Elvio Porta nel “90 o “O’ juorno e’ San Michele”, l’anno successivo, ancora di Elvio Porta e Premio Speciale Ubu, il primo di sei, ‘per il lavoro svolto all’interno del Carcere’, quell’anno -, e poi dipanati verso drammaturgie quali “Marat-Sade” da Peter Weiss (1993), “La Prigione” da “The Brig” da Kenneth H. Brown (1994) e, ancora, Brecht, Shakespeare, Pasolini, Genet, fra gli altri – rivisitati e corretti, ovviamente, com’è cifra della compagnia e con un tal risonanza partecipata, da parte del pubblico, da ribattezzare spontanemanete “Mercuzio non vuole morire” in “Mercuzio non deve morire”.

A ricordarci tutto questo Rossella Menna, drammaturga e curatrice teatrale, oltre che collaboratrice di “Carte Bianche” – l’associazione che cura l’attività della Compagnia della Fortezza e del festival VolterraTeatro -, che ci ha accompagnati in “Mercuzio e altre Utopie Realizzate”. Una conferenza-spettacolo, di fatto: un modo d’intrattenere il pubblico – siamo nel cuore di Milano, eppure all’interno del Padiglione Toscana per EXPO 2015 -, ripercorrendo le tappe salienti di un’esperienza certo al fuori dei canoni dell’ ‘ortodossia’ teatrale, ma non per questo meno interessante e sfidate: anzi. E’ stato ieri, sabato 20 giugno: presenti sul palco anche Armando Punzo e Aniello Arena – fondatore della compagnia, il primo, oltre che drammaturgo, attore e regista, e attore storico, il secondo –, Andrea Salvadori – autore ed esecutore al piano delle musiche di scena – e il critico e docente universitario Oliviero Ponte Di Pino, testimone dell’evoluzione della Compagnia negli anni.

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E se la Menna non si è risparmiata nel fare gli onori di casa – con quell’entusiasmo e quella competenza, che non potevano non risultare immediatamente contagiosi -, medesima ‘pancia’ e professionalità anche per Arena, che si è esibito – a fil di pubblico – in ripetuti assaggi tratti dagli spettacoli con quella forza attorialmente dirompente, che è cifra de La Fortezza. Lo ha sottolineato bene, Ponte Di Pino, parlando di quel “portato esistenziale, che i carcerati naturalmente hanno e che gli attori professionisti faticano a costruirsi”. Il riferimento è stato a quella “potenza naturale” – in Arena e in tutti gli spettacoli-evento, per certi aspetti anche spettacoli-giostra o spettacoli-bagarre, de La Fortezza -, che non può non colpire e che è diretta conseguenza di quel Teatro Necessario da cui è partito Punzo – allievo di Grotoski -, ritiratosi nella realtà carceraria per motivi ‘sperimentali’, prima ancora che per reale volontà di confrontarsi con un teatro civile. “Non è tanto questo, quel che m’interessa”, ha ripetuto in più occasioni. Certo, poi la valenza civile è affiorata da sé. Ci ha parlato dell’esperienza di ‘spogliazione’ e ‘saparazione’, Ponte Di Pino, che, indossati gli abiti dello spettatore comune, ha provato a restituirci la sensazione profondamente umana di chi acceda al carcere di Volterra e si veda costretto a consegnare i simboli sociali della propria identità – cellulare, chiavi di casa e documenti. Ci si ritrova in qualche modo inermi ad interagire in spazi e circostanze angusti e ‘potenzialmente pericolosi’. “Ora è abbastanza semplice accedere agli spettacoli in carcere”, ha precisato Punzo; ma non è sempre stato così. In ogni caso, esiste un protocollo ben rigido, seppure esploso, negli anni, fino a giungere all’inclusione – altra parola-chiave – del pubblico all’interno delle mura carcerarie – e, per converso, di ‘esportazione’ degli spettacoli nei luoghi tradizionalmente adibiti: i teatri, appunto, come per ‘qualsiasi’ compagnia di giro.

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Ma non è solo questo. Non si tratta solo di un’esperienza ‘alternativa’. Ponte Di Pino sottolinea quanta “intelligenza artistica” e quanta “coerenza” ci siano nella poetica di Armando Punzo – in tandem, oramai, da anni con Arena, da un lato, anche se oramai l’attore ha intrapreso una carriera artistica anche autonoma, e col musicista Andrea Salvadori, per altro, tanto da paragonarli all’illustre sodalizio Fellini/Rota. “Intelligenza” ravvisabile, uno per tutti, nell’ultimo “Santo Genet”, ad esempio, che, rappresentato la prima volta entro le celle del carcere – a non solo simbolica asfittica costipazione come in minuscole stanzette di un bordello –, solo l’anno successivo si arricchisce di un epilogo, che non avrebbe potuto essere più significativo di così: un funerale a cui si confluiva, nel cortile della casa circondariale, e in cui gli attori/reclusi giungevano portando statue replicanti se stessi. E’ lo stesso effetto di “corto circuito” dirompente, a cui si assiste in “Marat-Sade” (1993) o “La prigione” (1994), in cui la riproposizione di spazi ‘di contenimento’ – il manicomio, nel primo caso, il carcere, nel secondo –, non fa che amplificare la valenza e la dirompenza delle domande su senso e libertà dei protagonisti. Quindi: “Coerenza nella necessità di misurarsi con testi fondamentali della nostra cultura”. Non si tratta di una “messa in scena”, ma di un “corpo a corpo”: “Si parte da una storia esemplare per vedere che cosa succede nel cortocircuito scaturente dal fatto di trovarsi proprio in quel luogo”, ha messo in luce il critico.

E’ questo, quel che forse rende ragione alla cifra di “barocchismo”. Il termine è dello stesso Punzo, che ha spiegato: “Perché siamo qui da 27 anni? Che senso ha continuare a lottare? Per cosa? E perché mettere in scena Genet? Genet è l’autore, che più di altri è riuscito a trasformare un materiale vile in oro: lui lo ha fatto tramite la poesia, noi attraverso il teatro. Ecco perché tutto è barocchissimo.”, mentre, già a proposito dell’ “Orlando Furioso” (1998), notava: “Uno spettacolo durissimo. Un labirinto di vero legno costruito all’interno del carcere. Il pubblico, diviso fra uomini e donne, si perdeva alla ricerca di voci, che riusciva solo a intuire. Ogni tanto gli capitava davanti un combattimento o un attore, che gli bisbigliava qualcosa. E’ il potere trasfigurativo della parole portatrice di significato: non ci sono mai dialoghi, ma solo parole consegnate direttamente al pubblico. Una trasfigurazione, che è cresciuta ogni anno di più – nelle musiche, nei costumi… Ogni anno si aggiunge (in trasfigurazione) per togliere (in realtà)”.

E così mentre continua, quest’esperienza di “allenamento sull’uomo prima ancora che sull’attore: per renderlo filosofo… in accordo a quel metodo Grotoski, che molti attori non usano più”, ha rivendicato la Menna, questo Punzo/Kantor – come lo ha definito Ponte Di Pino, rilevando una simile liquidità nell’essere “fuori e dentro agli spettacoli” – ha accennato al nuovo progetto: alla ricerca di tutta l’umanità ‘persa’ dentro alle opere di Shakespeare. “Forse c’è un altro testo, sotto a questo brulicare di vita ignara, per chi cerca di andare oltre questa patina di superficialità, che comodamente tutti noi frequentiamo”.

Le parole – appassionate -, le immagini – forti -, i contributi – anche video – documentali e sferzanti e le testimonianze sentite son quello che ci portiamo a casa: en attendent “Città sospesa”, il Festival di Volterra, quest’anno dal 26 al 30 luglio, dedicato alla delicata situazione dei 193 operai della Smith Bits.

Francesca Romana Lino

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