Vucciria Teatro e quel Teatro che non ti aspetti

Vincitore di “Teatri del Sacro” 2017, “Immacolata Concezione” di Vucciria Teatro è uno spettacolo di quelli che non ti aspetti. Tre sole repliche a Milano – il 5, 6 e 7 aprile 2018, al Teatro Filodrammatici – per poter assistere a quel modo di fare teatro che, se parla di argomenti scabrosi e disturbanti, sceglie di farlo in tutt’altra maniera. È proprio da questo cortocircuito tra forma e contenuto, che scaturisce quella cifra lirica e sospesa, ma capace di esplodere in una conflagrazione che non ha bisogno di pianto e stridor di denti per farsi ascoltare.

Eppure le premesse c’eran tutte. Il prologo racconta di una Sicilia rurale e retrograda – in sottofondo i riferimenti e la denuncia della barbarie della guerra ai tempi del Fascismo – e della disperazione di un pastore che, a causa di una epidemia che gli ha falcidiato l’intero gregge, si vede costretto a barattare la figlia con una capra. Bianca, tanto l’una quanto l’altra – la ragazza lo è in senso figurato, essendo quel che la gente di solito definisce babba e cioè sciocca -, entrambe custodiscono in sé il germe di qualcosa di straordinario. Come l’animale sarà sufficiente, da solo, a risollevare le sorti della famiglia del pastore – o, almeno, questo è quel che si lascia intuire, dal momento che, come in ogni favola, terminata la sua funzione incidentale, il personaggio e le sue vicende scompaiono del tutto dal racconto -, così la giovane rivelerà in vari modi quella sua condizione di spensierata purezza pur all’interno del bordello entro cui andrà a vivere. Nonostante queste premesse, la vicenda non si snocciola in dolenti fotogrammi veristi a indugiare, alla maniera del Verga, sull’immodificabilità di una bruttura che non è solo socio-economica o culturale, ma ontologica, ergo insuperabile; al contrario, il drammaturgo e regista Joele Anastasi sceglie di raccontare con una eco di realismo magico, che mentre lo riallaccia alle fila di altri illustri autori teatrali contemporanei e a lui conterranei – da Rosario Palazzolo a Vetrano-Randisi, pur con eco e soluzioni linguistico-drammaturgiche differenti, o da Scimone-Sframeli fino ad un certo Saverio La Ruina o a Dammaco, oltrepassando lo Stretto -, al tempo stesso lo proietta in quel bacino latino capace di travalicare la culla del mare nostrum raggiungendo le latitudini del Sud America.

Nessuna piangeria, quindi, ma solo la meravigliosa voglia di raccontare una favola – in fondo un po’ come quella, a puntate, che Turi narra a Concettina, fil rouge di questo loro personalissimo modo di fare l’amore -, secondo quella tradizione aedica così intimamente inscritta nell’umano dna da Sherazad ai rapsodi, da Omero ai cantastorie passando attraverso ai lussureggianti cunti di cui è ricca la tradizione orale siciliana.

 

E la storia sciorinata in “Immacolata Concezione” dice di una ragazza dal candore talmente spiazzante, da contagiare tutti con quella sua inconsapevolezza, fino al punto che “mi ficiru santa, perchè li ho guardati negli occhi per la prima volta. Perché gli ho detto che cu’ mia putevano piangere e ridere e di nuovo piangere e arristari omini”. Notevole è che una vicenda così, la si ambienti in una Sicilia ai tempi del Duce, elevazione a potenza di machismo e prepotenza, in un contesto in cui capre e uomini sembrano specchiarsi gli uni negli altri; non meno di quelle, questi vivono a tal punto pecudum ritu, da non destar meraviglia che Concetta entri in scena nuda, legata ad una fune e con tanto di campanaccio al collo… eppure lieta e spensierata, come probabilmente la candida capretta con cui è stata barattata.

E, però, nessun negazionismo. Il mondo che ci viene narrato non fa sconti alle dinamiche di prevaricazione, prepotenza e becera convenzione sociale. Un mondo fatto di soli uomini/manichini – i clienti del bordello con le loro vite “per bene”, lontano, nelle rassicuranti attività lavorative giù al paese -, fra cui spiccano il mafioso e il prete. Entrambi pietosi ma risibili fantocci rispettivamente del potere mondano e del suo timido sofferto antagonista, in più di un’occasione la sapiente regia ce li mostra speculari in a parte, in cui, nonostante tutto, i loro canti sembrano intrecciarsi, svelandocene la fragile specularità, mentre l’iconografia sembra suggerirci: “Chi volete libero? Barabba o Cristo?”. E che ne è delle donne, in questo mondo così ostinatamente patriarcale? Nella pièce vediamo solo le signorine, intrappolate nel loro eptalogo, e dalle movenze ammiccanti cadenzate nel frullo dei ventagli; l’arguta regia, spesso capace di alternare graffianti siparietti a momenti di puro lirismo e di satira surreale, ce le mostra del tutto intercambiabili fra loro, eccezion fatta per Donna Anna, la tenutaria, e, appunto, questa straordinaria nuova arrivata: straordinaria per forme – “C’ha due minne che parono due colonne”, si affrettano a commentare i giovani di paese -, ma, soprattutto, per lo straordinario miracolo laico, che andrà ad innescare.

Si sciorina così, questa favola sospesa nel tempo, non fosse che per quei dettagli storici, in cui il pianto struggente di archi e viole accompagna, sottolineandolo, quanto le parole dicono, ma senz’enfasi. Dignità, rispetto e onore sono le tre virtù teologali di questa società, ma qui si gioca a ribaltarne il senso: così l’onore non è più tanto quello sulla bocca di Don Saro – uomo così arrogante da arrivare a dire: “Delle mie azioni devo rendere conto solo a Dio e, se esiste, sarebbe orgoglioso di me” – , quanto quello sulle labbra di Donna Anna, che ha saputo costruirselo con la dignità del suo ventennale onorato lavoro, il rispetto di cui va fiera. E il ribaltamento è anche quello dell’enorme struttura girevole, che troneggia sul palco: ora bordello, ora sagrestia e alla fine capanno, ma, in fondo, che differenza fa? La differenza la fanno invece gli attimi attori: Federica Carruba Toscano/Concetta, certo, ma anche Alessandro Lui/Turi, Enrico Sortino/Don Saro, Ivano Picciallo/Padre Gioacchino e lo stesso Joele Anastasi anche il scena come Donna Anna, oltre che, prima, come il pastore/padre di Concetta, e protagonista di un’illuminante svestizione/vestizione, a fil di proscenio, a rivelarci il passaggio di proprietà della giovane. Attori dalla capacità mimica impeccabile e dalla misura interpretativa millimetrica capaci di farci credere alla bellezza totalizzante di una donna, la cui fisicità, né per forma, né per portamento, corrisponde ai canoni della modella; eppure riesce ad irradiare un candore davvero in grado di sublimarne l’imponente fisicità, che diventa tacita “ostia” di quel sacrificio bianco. La centralità del corpo e del lavoro attorale su di esso ben si focalizza, del resto, anche nell’ardita, ma assolutamente credibile, trasformazione di Joele Anastasi da padre/pastore a tenutaria “matrigna” e nelle così convincenti interpretazioni delle prostitute fatte dagli attori, che quasi non li vediamo più i petti villosi, che occhieggiano dalle vestaglie o quegli slip che lascian trasparire protuberanze, che le signorine non dovrebbero avere.

Un lavoro oltre modo curato, maturo e ben fatto, questo “Immacolata Concezione”, che, dopo “Battuage” e “Io, mai niente con nessuno avevo fatto”, mostra ancora una volta una freschezza inventiva e un’intuitività lirica spiazzante per capacità di affondare in un racconto metaforicamente in grado di parlare di pace e di guerra, di identità e di ruolo sociale, di dignità e di fragilità umana e di inumana prevaricazione. E lo fa con la voglia e il coraggio di mostrare che un’altro modo è possibile: “Muncìtimi”, cioè: “Mungetemi”, dice Concetta ormai non più capra da scannare: “U me nomi e’ amuri…”. Ma, forse, il miracolo più grande si verifica ogni qual volta il teatro sappia dire cose importanti con quella leggerezza sospesa che, come scriveva Calvino, non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore.

Francesca Romana Lino

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