Echi da Kilowatt Festival: intervista a Gurshad Shaheman

“Questa Fervida Pazienza” e’ il titolo dell’ultima edizione del Festival Kilowatt svoltasi a Sansepolcro la scorsa estate. Per la prima volta invitato in Italia a presentare il suo lavoro, l’artista franco-iraniano, Gurshad Shaheman (info), ha portato due delle performances che compongono la trilogia “Pourama, Pourama”. La trilogia si basa su un racconto autobiografico di Shaheman: dalla sua infanzia sino all’ingresso nell’età adulta. Le performances sono dedicate alla sua relazione con il padre (Touch Me), con la madre (Taste me) e con se stesso (Trade me). Il titolo “Pourama, Pourama” che raccoglie tutte e tre le performances è la traslitterazione del suono ascoltato dall’artista quando era bambino nella canzone d’amore di Patricia Kaas che cantava: ” Pour un mois, pour un an” ovvero per un mese, per un anno. Da qui è nato il titolo della trilogia, nella prima parte “Touch Me” ogni persona del pubblico indossa una maschera di carta con l’immagine del viso del padre dell’artista consegnata all’entrata. Alla fine della performance il pubblico è invitato a stabilire un contatto fisico con l’artista perché il racconto possa essere terminato. La seconda parte “Taste me” comprende una cena, cucinata e servita al pubblico dall’artista stesso. A Sansepolcro, lo scorso luglio, l’autore, vestito con i vestiti della madre, ha preparato un piatto di cucina tradizionale iraniana, il pubblico ha mangiato ed assistito alla performance seduto nelle tavole apparecchiate all’aperto nei giardini di Piero. Segue l’interessante dialogo che ho avuto il piacere di scambiare con l’artista.

Claudia Roselli: Ciao Gurshad, piacere di conoscerti. Ero a Sansepolcro a Luglio ed ho partecipato alle tue performances “Touch me” e “Taste me” vorrei chiederti se era la prima volta per te in Italia.  Gurshad Shaheman: Si era la prima volta che presentavo uno dei miei spettacoli, anzi due dei miei spettacoli. Ma avevo già lavorato in Italia, perché ho fatto l’Ecole des Maîtres nel 2010, undici anni fa con Matthew Lenton. Dopo, sono andato e tornato abbastanza spesso. Ma era la prima volta che presentavo spettacoli miei, si.

C.R.: Come è stato poter presentare solo due parti della tua opera?
G.S.: Veramente non ho avuto la sensazione di presentare qualcosa di incompleto. Prima ho scritto “Touch Me” nel 2012 e l’ho presentato per lungo tempo. Poi in un secondo momento, nel 2013, ho scritto “Taste me” e ho presentato entrambi. L’ultima parte “Trade me”, l’ho scritto due anni dopo nel 2015. Non ho avuto la sensazione di aver spezzato il mio lavoro. Certamente tutte le parti possono essere viste una di seguito all’altra, tu hai avuto la sensazione di aver visto qualcosa di incompiuto?

Fotografia 2: “Touch Me” a Sansepolcro, Luglio 2021, Kilowatt Festival. Credits: Elisa Nocentini

C.R.: No, assolutamente. Ora è chiaro il processo creativo e la scansione temporale ed ho capito che è stato possibile solo dopo il 2015 presentare le tre performances una dopo l’altra. Però ho letto sulla tua creazione, in toto, e perciò so che abbiamo “perso qualcosa”. Ma forse è a causa di questa situazione particolare, che non abbiamo potuto vedere anche la terza parte ? G.S.: Nelle prime due parti, la mia voce è registrata. Ho preso un istruttore in Italia, per registrare in Italiano, frase dopo frase. E’ stato molto lungo e molto difficile per me. Ma la terza parte è composta da dialoghi spontanei con le persone, dura un’ora e quaranta minuti. Un monologo in francese e non potevo farlo in italiano. Sarebbe stato anche molto difficile da sottotitolare, perché secondo la mia idea, le persone dovrebbero essere ovunque e sarebbe stato comunque difficile anche mettere uno schermo con sottotitoli. Questo è il motivo perché ho deciso di presentare solo la prima e la seconda parte: “Touch me” e “Taste me”. La prima e la seconda parte invece hanno avuto vita propria per lungo tempo e non ho mai avuto la sensazione che il pubblico mancasse di qualcosa. Credo che invece la terza parte possa forse non funzionare da sola, perché l’ho scritta apposta per completare le prime due parti.

C.R.: Mi sono piaciute la seconda e la terza parte, avrei voluto vedere anche la terza.
E’ stato molto interessante prendere parte a questa performance, perché il modo nel quale hai narrato la tua biografia è molto intenso: denso di sensazioni connesse con i tuoi sensi, conseguentemente anche per il pubblico.
All’inizio mi sono domandata se “Touch me” fosse pensato diversamente da come lo hai presentato a Sansepolcro, se fossero state fatte delle modifiche dovute al Covid. Anche per l’uso delle maschere con le sembianze di tuo padre, distribuite all’entrata.
Puoi parlarcene? Ho letto una frase molto significativa, su “Touch me” estratta probabilmente dal tuo libro “ Pourama, Pourama” e collegata all’assenza di contatto fisico con tuo padre. La modalità con la quale la performance inizia, senza che tu sia presente e che ci sia solo la tua voce registrata, ci parla anche di questo. Nel pubblico, a Sansepolcro, si era creata una sorta di attesa, senza neppure sapere, per cosa. Puoi parlarci di questa assenza e di che cosa è stato importante per te, per riuscire a narrare questa storia.
G.S.: Sì, rispondo prima a cosa è cambiato nella messa in scena dopo l’arrivo del Covid. Sono cambiate molte cose per “Touch me”, le persone del pubblico erano in uno spazio chiuso e buio. Non c’erano sedie, ma solo cuscini. In questo modo le persone potevano sdraiarsi, sedere a terra, potevano tenere gli occhi chiusi. Le persone non potevano vedere niente e si creava un’intimità molto più grande, perché ognuno stava ascoltando da solo. A Sansepolcro, a causa del Covid, abbiamo dovuto posizionare delle sedie, perché le persone dovevano essere alla distanza di sicurezza. Abbiamo dovuto farlo all’aperto perché tutto il pubblico non poteva stare nel palcoscenico altrimenti non ci sarebbe stato sufficiente distanziamento. Questo ha cambiato moltissime cose per me. Normalmente le persone non sarebbero state nella posizione consueta che si ha guardando uno spettacolo, perché nell’allestimento originale è pensato tutto molto più fluido: sono tutti immersi nel buio, non per forza seduti, ma sdraiati, in mezzo ai cuscini e questo invece non si è potuto fare. Cosa ho sentito a Sansepolcro? Forse con questa disposizione tradizionale delle sedie si era creata un’aspettativa maggiore, collegata all’orientazione dello spazio verso il palcoscenico. Le persone forse si aspettavano di vedere qualcosa, visto che le sedie erano direzionate verso il palco e forse questo è stato un pò fastidioso per loro, perché non sono comparso sul palcoscenico per lungo tempo. Questa è stata una modifica, grande, causata dall’attuale situazione Covid.

C.R.: E’ interessante da sapere e da condividere con il pubblico che era presente alla performance. Io c’ero, ma ascoltando la voce narrante non ho avuto questa sensazione.
G.S.: Cosa voglio fare non è fare teatro.
Ma utilizzare alcuni strumenti del teatro per dare alle persone, più di un esperimento, più sensazioni interiori. Ero a New York, quando Marina Abramovich ha presentato la sua performance “ The Artist is Present “ è stato travolgente. Stavo facendo teatro da più di dieci anni, ma quando ho visto lei seduta a questo tavolo e le persone soltanto sedersi di fronte a lei. Sono stato sconvolto così tanto, travolto, lei non stava facendo niente ma è stato più potente di tutto quello che avevo visto in teatro sino a quel momento. Come è stato possibile? Questo ha cambiato completamente il mio modo di fare teatro. Ora non credo più nelle decorazioni false, nei “caratteri” teatrali. Quando vedo qualcuno in teatro ripetere dei caratteri, so che questo non mi appartiene, non è il mio linguaggio. Non mi piace quando le persone mi raccontano la loro storia in maniera diretta o troppo patetica. Cerco sempre una strada per essere vero, per essere in un rapporto genuino di condivisione. Ma non mi piace essere troppo frontale. Questo è il motivo per il quale ho registrato la mia voce, perché parlare di se stessi davanti ad un pubblico, è molto teatrale; ed anche se recito me stesso sto mettendo in scena un personaggio. Ma ascoltare la mia stessa voce, insieme ad altre persone, e’ condividere lo stesso tempo, lo stesso spazio ed essere nella medesima posizione. Noi stiamo ascoltando insieme una storia. Certamente è la mia storia e sono io che la sto raccontando, ma io, in quel momento la sto ascoltando insieme al pubblico e sono nella sua stessa posizione.

C.R.: Nella versione originale la tua voce era registrata? G.S.: Si.

C.R.: Solo la posizione dei corpi del pubblico era diversa, ma la voce era registrata anche nella versione originale
G.S.: Nelle versioni originali di “Touch me” e “Taste me” la voce era registrata , questo mi permette di essere in una relazione nel presente con il pubblico, non avendo una relazione tra performer e osservatore ma essere nel medesimo spazio, condividendo “un’altra cosa” e non un’azione performativa.

C.R.: Nell’atto dell’ascolto, prediligendo il senso dell’udito, una persona può incontrarti soltanto venendo a prendere da bere al seguito del tuo invito. Soltanto con l’avvicinamento a te c’e’ un cambiamento nella performance. G.S.: Si c’e’ un cambiamento nella performance ed è il pubblico a fare lo spettacolo. Quello che le persone vedono, anche alla fine, è come qualcuno del pubblico venga a toccarmi. E questo è lo spettacolo, la connessione tra due corpi che crea la performance. Non sono “io “ che sto facendo uno spettacolo per gli altri. E’ il pubblico che sta creando uno spettacolo per se stesso.

C.R.: Che cosa è strano nel testo che hai scritto, in “Touch Me” – non ricordo esattamente tutte le frasi perché la performance non è stata ieri, ed è passato un pò di tempo – ma proprio quando le persone hanno iniziato a toccarti il testo diventa un pò pesante
G.S.: Sì è vero

C.R.: Nei termini della scelta delle parole, ma anche nel tono della narrazione  G.S.: Sì è vero

C.R.: Perché? Eri completamente consapevole di questo? E’ stata una tua decisione di raggiungere questo grado? Perché quando hai questa vicinanza e questo contatto ricevi più forza e riesci a parlare della malattia, o magari dei fluidi del corpo. Ci puoi parlare di più riguardo a questo aspetto?  G.S.: Hai detto tutto. All’inizio tu non mi conosci, quindi io presento me stesso. La mia infanzia in particolare in “Touch me”, presento i miei genitori ed in particolare la relazione con mio padre, e quando tu mi conosci abbastanza dopo venticinque minuti, ti posso chiedere di toccarmi. Perché ora mi conosci e puoi avvicinarti e quando mi tocchi, il corpo rivela se stesso. Attraverso il tocco si svelano i traumi o i segreti del corpo.

C.R.: La relazione con tuo padre era di vicinanza?  G.S.: Realmente no, lui non mi toccava mai.

C.R.: Si avevo capito, c’era vicinanza? Intendo di prossimità nello spazio, ma non realmente di intimità?
G.S.: Sì esattamente.

C.R.: C’e’ stato un punto che mi ha impressionato particolarmente nel tuo racconto, quando hai parlato dello svolgimento dei compiti della scuola di sera.
G.S.: Il dettato? Qual è la domanda? Vuoi parlare di questo? (Ride)

C.R.: Vorrei chiederti perché hai scelto questo ricordo preciso della tua infanzia?
G.S.: Tutti i ricordi che sono in “Touch me” sono collegati al corpo. E sono collegati alle esperienze di come mio padre stava insegnandomi che cosa è il mio corpo, che cosa può fare e che cosa non può fare. Veramente lui non mi ha mai picchiato, molto raramente è accaduto. Sono state pochissime volte, ma le ricordo perché sono state molto violente. Perché ho scelto questo ricordo? Perché quando penso a mio padre penso a questo. Non sono esausto, ma non racconto tutto.
Ci sono dei momenti diversi nei quali io ho approcciato il mio corpo come bambino. Io posso vomitare, posso sanguinare, posso far pipi’ in strada ma lui può picchiarmi. Questo era l’approccio diverso al corpo quando ero bambino. Questo è il motivo della narrazione di questa storia. E’ correlata con il racconto di quando mio padre mi lavava. Ti ricordi? Lui mi aveva chiesto di potermi far fare una doccia ma mi ha chiesto di tenere le mutande. Lui non poteva toccarmi con affezione. Non poteva abbracciarmi. Lui non voleva veramente prendersi cura del mio corpo, era solo perché lo obbligavano a farlo, non era a suo agio con questa mansione. Perché lavare qualcuno è prendersi cura di qualcuno. Sei d’accordo? Dare attenzione.

C.R.: Si, può anche essere prendersi cura. Ma è lavare il corpo di qualcuno.
G.S.: Devi essere gentile quando lo fai. Per me lavare e picchiare sono sensazioni opposte. C’è l’azione di lavare e l’azione di picchiare, e nei due casi, non mi sono sentito a bene. Quando mi ha picchiato perché non lo ha fatto intenzionalmente: è qualcosa che è accaduto al di là di sé stesso. Fuori dal suo controllo. Non era un’azione premeditata.
Quando un bambino fa una sciocchezza, può ricevere uno schiaffo per essere educato. Qualche volta si danno dei piccoli schiaffetti perché si pensa che questo possa servire nella costruzione dell’educazione di un bambino. Per mio padre non era questo e se mi colpiva, non so se era perché ha vissuto la guerra o perché era come attraversato da una sorta di violenza che andava oltre se stesso.

C.R.: Ho capito.
G.S.: Alla stessa maniera di come quando devi dormire, ma sei completamente sveglio.
Quando lui mi doveva lavare, lui usciva completamente da sé e non sapeva come fare. Era sopraffatto. Completamente sopraffatto. Sapeva che doveva avere un rapporto con il mio corpo ma non sapeva assolutamente come fare. Per me queste due cose vanno insieme.

C.R.: Ho capito. Tu sei andato molto in profondità con te stesso per arrivare a raccontare questa storia. Hai prima scritto la tua storia nel libro “Pourama, Pourama” e poi hai deciso di fare questa performance in tre parti? La prima dedicata a tuo padre, la seconda a tua madre e la terza è il tuo “distacco”possiamo dire così? G.S.: Hai letto il mio libro?

C.R.: No, ma vorrei leggerlo. Ho solamente letto, sul tuo libro e sulla tua formazione.
E se vuoi possiamo dire sulla tua storia, in particolare di quando sei arrivato in Francia ed eri con tua madre e quando tu hai deciso di intraprendere questa vita artistica.
Che cos’e’ che ti ha mosso? Che cosa ti ha guidato?
G.S.: E’ una domanda molto difficile. ma prima risponderò alla domanda precedente. Non ho scritto il libro prima: ho costruito il primo spettacolo, poi il secondo e poi il terzo.
Un regista di teatro mi ha detto che avrei dovuto pubblicare il testo. Io non volevo, ma il regista ha inviato il testo ad un editore e così il testo è stato pubblicato. Non volevo davvero fare un libro, perché quello che mi piaceva nello spettacolo, è che eravamo tutti insieme e potevamo ascoltare tutti insieme questa storia. Invece, con un libro, qualcuno avrebbe potuto leggere la storia a casa da solo, o nell’autobus, o nei loro letti, invece avevo sempre desiderato che le storie potessero essere condivise fisicamente nello stesso spazio. Ma poi ho permesso che potesse diventare un libro, perché mi avrebbe permesso di scriverne un altro ed un altro ancora. Per pubblicarne uno successivamente con più facilità per questo ho deciso che poteva essere un libro. Ma non è stato l’inizio, l’inizio è stata la performance.

C.R.: Puoi parlare del tuo inizio come artista in Francia?
G.S.: E’ molto classico. Niente di speciale, ho iniziato a fare teatro alle scuole superiori, perché ero molto timido. Da poco ero arrivato in Francia ed il mio francese non era così buono, così, ho pensato che facendo un po’ di teatro avrei potuto andare oltre la mia timidezza. Poi mi sono messo a studiare matematica, perché volevo diventare un ingegnere come mio padre. Questo è quello che ho fatto per un pò, ma ad certo punto non ero felice e mi sono innamorato di un attore e volevo fare tutto come lui ed è andata avanti così per sei anni, e lui mi ha insegnato come superare concorsi, come iscriversi al conservatorio ed anche alla scuola superiore. Ho colto tutte le opportunità che ho avuto, nulla di tutto questo era programmato. Qualcuno mi ha proposto di fare una performance ad un Festival di Performances, e per me sarebbe stato solo per due notti, ma dopo che ho accettato e l’ho fatto, a qualcuno è piaciuto e mi ha proposto di rifarlo. Quando per la prima volta mi hanno chiesto di rifare “Touch me”, io ho detto no, perché era un lavoro pensato per essere presentato una volta soltanto. Questo per dire che tutto ha a che fare con gli incontri e con le opportunità della vita stessa. Tutto si costruisce così: se io avessi incontrato delle persone diverse, se mi fossi innamorato di qualcun altro, forse avrei fatto cose diverse da quelle che ho fatto. Non è qualcosa che ho sognato quando ero bambino, per esempio.

Fotografia 7: “Taste Me” a Sansepolcro, Luglio 2021, Kilowatt Festival. Credits: Luca Del Pia

C.R.: Interessante. Capisco. Riguardo: “Touch Me”, potresti dire, qual è la relazione con le fotografie e come mai tu hai deciso di introdurre le fotografie, alla fine della performance?
Sono molte belle a dire il vero. Amo la fotografia, e mi piace fare foto e video, e sono stata colpita dalle foto che proietti alla fine della performance, di te bambino, della tua infanzia. Attraverso quelle fotografie le cose arrivano al pubblico in maniera più facile. G.S.: Ti voglio raccontare una storia incredibile.
Per esempio: la storia della bomba che è caduta nella strada e mio padre mi ha chiesto di fargli una fotografia con la bomba e io ho raccontato che quando avevo quattro anni mio padre mi ha portato in guerra. Tutto questo ha sempre avuto dell’incredibile per le persone e spesso mi hanno detto che quello che raccontavo non sembrava reale. Mi piace che il pubblico abbia sempre dei dubbi sulle cose che racconto nella performance, che si chiedano se sia vero o no. Ma ci sono queste fotografie, alla fine, che mostrano che questo uomo esiste. Il pubblico indossa una maschera ma non sa che è un’immagine del volto di mio padre e può così riconoscere che le maschere che tutti indossano hanno tutte l’effigie del viso di mio padre. Ed ognuno può vedere me e lui in Francia vicini alla Tour Eiffel, me con un kalashnikov, alla guerra e perciò soltanto alla fine si capisce che tutto quello che ho raccontato è vero. Tutto vero. Questo è quello che mi piace. Forse pensi che tutto quello che ho raccontato è vero, perché ci sono le fotografie che ne sono testimonianza. Ma sono le fotografie, illustrazioni del tutto realistiche di quello che ognuno ha ascoltato? Riguardo a questo ognuno può decidere.

C.R.: Ok, vorrei spostarmi adesso sulla seconda performance: “Taste me“.
Seguendo questo filo conduttore del realismo, se tu desideravi raggiungere la stessa sensazione con il pubblico, posso forse dire che il pubblico forse può non essersi sentito a suo agio, o meglio, non così confortevole, in questa performance, di fronte ai tuoi racconti. Posso dire che io sono stata un poco più fortunata rispetto agli altri partecipanti allo spettacolo, perché sono allergica al glutine, e non ho potuto mangiare il cibo che hai cucinato.
G.S.: Ok (ridono entrambi a crepapelle)

C.R.: Perciò non ho partecipato davvero alla cena, ero seduta vicina alle persone ma un pò in disparte, non a tavola. Sarei stata curiosa di provare tutto, ma purtroppo non ho potuto realmente prendere parte alla cena. Ero perciò dentro e fuori la performance allo stesso tempo.
G.S.: Non ha mangiato niente?

C.R.: Non ho potuto. Vorrei chiederti quale è stata l’idea che ti ha condotto ad aver messo insieme queste memorie: della tua intimità, le tue storie sessuali, la figura di tua madre. Come hai mescolato queste cose? L’atto del cucinare e lasciare che poi il pubblico mangiasse e poi alla fine mangiare, tu stesso, un poco solamente da solo. Il sentimento palpabile era la tua solitudine forte. Anche se ti sei seduto a tavola con il pubblico, ti sei mosso in mezzo ai tavoli. Io ero in una condizione diversa da tutto il pubblico ed ho raggiunto questo punto con te. Non mi era permesso mangiare ed ho raggiunto quella stessa condizione di solitudine. C’era tutta quella gente e tu ti muovevi in mezzo a loro, ma tu non avresti potuto neanche offrirmi il cibo, perché non potevi raggiungermi.

Fotografia 8: “Taste Me”, Sansepolcro, Luglio 2021, frame dal video di Kilowatt Festival

G.S.: Hai riconosciuto mia madre? C.R.: Ho capito che.. Ma tua madre era seduta tra le persone del pubblico?  G.S.: No lei non era lì. Io stavo canalizzando mia madre.

C.R.: Tu eri tua madre.
G.S.: Sì io ero mia madre facendo queste cose. Perché ho deciso di scrivere “Taste me”’?
Perché lei era apparsa in “Touch me”, ma era molto debole, provava sempre un poco a protestare, ma mio padre non le prestava mai attenzione. Nella mia infanzia lei era sempre nell’ombra di mio padre, ma poi quando io raggiunsi il decimo anno di eta’, lei decise di lasciare la casa di mio padre e due anni più tardi decise di portarci in Europa.
Ad un certo punto dopo essere stata a lungo molto tranquilla e sottomessa, lei prese questa grandissima decisione e la prese velocemente e poi, con coraggio, la realizzò.
In “Touch me” avevo mostrato solo un suo aspetto, ed era quello prima del divorzio. Ma c’era anche un altro aspetto del suo carattere, apparso dopo il divorzio, quello di una donna molto forte ed autosufficiente, che voleva fare il meglio per i suoi figli e ha deciso di farlo da sola. C’era qualcosa in “Touch me”, che riguardava la vita di mia madre, ovvero che mia madre sempre avrebbe voluto studiare ed avere una carriera professionale.
Ma lei non l’ha mai potuta avere, perché prima c’è stata la rivoluzione e poi il suo matrimonio e poi i bambini e poi la guerra e poi l’esilio. Ogni volta c’è stata qualche cosa, da fuori, che non le ha permesso di avere una carriera professionale, io volevo raccontare questo aspetto della sua vita ed è il motivo per il quale ho deciso di cucinare. Dopo tutto, lei ha potuto soltanto cucinare per noi per tutta la vita e non ha potuto avere una carriera come avvocato o come giudice. La mia prima idea è stata questa: io volevo cucinare per le persone e raccontare loro le ambizioni di mia mamma, che lei non aveva mai potuto raggiungere. Ma mentre stavo scrivendo la storia, qualcosa di altro, mi ha spinto dagli abissi, dal profondo, qualcosa che non volevo venisse fuori, un segreto tra me e mia madre: ovvero la storia tra me e JeanLouis, una storia che è accaduta quando io avevo tredici anni e non ne avevo mai più parlato. E mentre stavo scrivendo su mia madre ad un certo punto mi è apparso chiaramente come tutto questo sarebbe stato falso, se io non avessi detto lei la verità su questa storia, che era un enorme segreto tra noi. E’ stato un segreto per più di venti anni tra noi.
Se io volevo scrivere qualcosa sulla relazione che ho avuto con mia madre ed essere genuino, avrei dovuto parlarle della storia della quale non le avevo mai parlato.

C.R.: Scusa la domanda: tua madre e Jean Louis stanno ancora insieme?
G.S.: No assolutamente. Loro non sono mai stati insieme. Erano amici e JeanLouis si è avvicinato molto a mia madre, solo per raggiungere me, sinceramente.

C.R.: Ah, questo è il motivo?
G.S.: Sì questo è quello che è accaduto. Ma quando lei scoprì quello che era accaduto, lei non ha mai più visto lui. Non si sono più rivisti. Lui è sparito. Perché mia madre gli ha chiesto di non tornare mai più. Ma io non avevo mai pensato di parlare di questa storia, ma ad un certo punto questa storia ha insistito insistito per essere raccontata in questo spettacolo. Questo è quello che è accaduto. Quello che è molto molto importante. E’ che uno spettacolo è uno spettacolo. Non è una terapia per me, non ha niente a che vedere con la catarsi e tutto il resto. Quando ho deciso di scrivere su me stesso, ho cominciato anche una terapia allo stesso tempo. Perché non volevo confondere lo spazio della parola, perché quello che condivido con il pubblico, lo ho già digerito, ed è già stato pensato e ripensato con la mia terapista ed anche in altri spazi, ho scelto molto precisamente ogni parola, perché quello che voglio condividere con il pubblico non è la mia vita. E’ la mia vita riscritta, rilavorata, remixata e…Capisci?

C.R.: Sì certamente, quando scegliamo delle storie da raccontare a qualcuno, possiamo farlo in centinaia di modi. Non è una questione che si riferisce alla storia in sé, ma in quale punto della storia noi vogliamo puntare il dito; e certamente se tu decidi di creare una performance, io, ho capito quando hai fatto questa precisazione nel tuo discorso precedente, perché molti artisti, che hanno avuto qualche momento difficile nella loro vita o delle difficili biografie hanno scelto l’arte per provare ad andare oltre i propri traumi. Perché anche una carezza può essere un trauma per qualcuno se non è il momento adeguato per riceverla. G.S.: Sì.

C.R.: Si ho capito, ma la sensazione che si viene a creare durante la performance è strana. Probabilmente a causa anche del cibo, perché il racconto della tua memoria, collegata con questo evento, giunge alla fine della cena. Le persone forse sono anche soddisfatte per la cena che hai preparato, soddisfatte per il cibo e per la musica che è molto coinvolgente. L’atmosfera che hai creato è molto piacevole e tu che racconti questi episodi e ricordi del tuo passato, indossando quel vestito. Tu che stai lottando per quelli che sarebbero stati i diritti di tua madre, perché lei non ha potuto finire di studiare. G.S.: Ho letto diversi commenti sul mio spettacolo ed uno diceva: “ E’ stato così bello quando lui ha raccontato nei minimi particolari questa esperienza sessuale. Ma perché lui ha fatto questo?”
Perché è il nostro lavoro in famiglia.In ogni famiglia ci sono degli scandali e si decide di non parlarne, di non vederli. Abusi sulle figlie, sui nipoti, abusi da parte del padre, madri picchiate, bambini picchiati o la violenza psicologica in famiglia, questo esiste, ma forse poi, noi, quando ceniamo con i membri dell’intera famiglia, siamo tutti seduti a mangiare come se niente fosse accaduto. Quante volte questo accade? Ho due zii che picchiano le loro mogli, noi ceniamo insieme, e mia zia ha un grande ematoma sul viso e lei dice che è caduta per le scale e tutti quanti annuiscono a questa spiegazione “Lei è caduta nelle scale” e siamo in una cena molto carina, tutti sono gentili e tutti mangiano insieme, ed è tutto molto carino, e stiamo tutti tappandoci gli occhi su quello che è accaduto veramente. E questo è accaduto anche a me, quando mia madre ha scoperto di JeanLuis, lei non mi hai mai detto una sola parola a proposito. Non mi ha mai più parlato, di questo, mai, mai, mai. Dopo che ho scritto il testo del mio spettacolo, dopo venti anni dall’accaduto, per la prima volta abbiamo parlato di questo evento di nuovo. Io le ho detto “ Mamma ho scritto il testo di uno spettacolo, dove ho raccontato questa storia “. E lei mi ha detto: “ Quale storia?”. Lei lo aveva veramente dimenticato. C’e’ una cena, perché in tutte le famiglie il cibo è motivazione di incontro e di unione, ed in tutte le famiglie si decide di non parlare di cose traumatiche e tutti sanno cosa è accaduto, ma nessuno parla di questo. Questo è il motivo.
Alla fine della cena, la famiglia ha condiviso tanto con te, ma allo stesso tempo la famiglia non ti aiuta davvero quando hai bisogno. Ma tu devi ascoltare questa storia, perché è accaduta realmente. Ora tu devi chiudere i tuoi occhi e le tue orecchie ad altro ed ascoltare questa storia: ascoltiamo la musica, condividiamo il cibo, balliamo, ma la realtà è questa, adesso mi puoi aiutare?

C.R.: E’ interessante capire il processo di costruzione della tua performance. Tutte queste cose sono mescolate: le emozioni, i sentimenti e le sensazioni provocate da oggetti sensuali, quali il cibo, il vino, la musica, ma vorresti stimolare a pensare “Tu, mi puoi aiutare in qualche modo? Tu puoi reagire in qualche modo? Puoi fermare quello che stai facendo e chiedermi che cosa è successo?” G.S.: Si, ma quello che è importante è la mescolanza e la confusione delle sensazioni. Non si sente soltanto una cosa, ma tante cose, quando guardi la performance, credo. Tu stai condividendo il cibo con le altre persone, e ascolti, e ci sono storie divertenti ma anche storie tristi e una storia terribile che arriva proprio alla fine. Il racconto finale è qui per pungerti, per terrorizzarti veramente. Come se vai al Luna Park, c’è la ruota panoramica per guardare la città dall’alto, puoi andare con le barchette nel laghetto, nelle montagne russe e poi per finire vai nel castello degli orrori. Perché hai voglia di avere paura, qualche volta.
Tu vai nel castello degli orrori e lì tra tutti gli scheletri, c’e’ qualcuno vestito da zombie che ti tocca e tu gridi e poi esci e tiri un grande respiro di sollievo pensando che è finito tutto. Questa storia è un pò come il castello degli orrori, per me è importante che le persone passino attraverso tutte queste sensazioni: il calore, l’abbraccio, l’oriente, la vicinanza, la lontananza, la madre, e di fianco, a lato di tutto questo c’e’ sempre anche qualcosa di spaventoso, un castello degli orrori.

C.R.: Pensi che noi potremo vedere anche la terza parte, in Italia, un giorno?  G.S.: Dovrei imparare l’italiano se questo dovesse accadere. (Ridono)

C.R.: Piacerebbe a me insegnarti l’italiano per questa finalità. Ma qualcuno non potrebbe tradurti?  G.S.: Forse. Ma dipende dall’eco che avrò dopo questa prima performance in Italia. Se mi aprirà qualche altra possibilità per tornare o no. Kilowatt Festival mi ha invitato a partecipare al Festival, non so se altri luoghi o altri Festivals mi inviteranno. Se ci saranno occasioni di finanziamento per il mio lavoro in Italia, deve essere costruita una produzione per presentarlo in Italia.

C.R.: Vivi in Francia?
G.S.: No, io vivo in Belgio e lavoro principalmente in Francia, ma anche in Belgio. Sono a Bruxelles adesso.

C.R.: Hai qualche nuova idea per il futuro? Stai lavorando a qualcosa di nuovo da solo?
G.S.: Lo scorso anno ho creato due spettacoli. Uno si intitola “ Silent Disco “ ed i protagonisti sono giovani che sono stati rifiutati ed allontanati dalle loro famiglie di provenienza ed un altro è con la mia vera madre e le sue due sorelle. Sono tutte e tre con me sul palco e raccontano le loro storie di vita, molto diverse tra loro. Questi due spettacoli saranno presentati in Francia e Belgio il prossimo anno ed ho anche dei nuovi progetti in mente ma ci vorrà un pò perché possano iniziare. Forse il mio prossimo progetto sarà dedicato alla mascolinità: come è costruita nella nostra società e ai diversi modi di pensare alla mascolinità. Forse invitando alcuni trans a parlare di questo ed anche degli uomini violentati dalle loro mogli. Forse si intitolerà “I nuovi uomini”, diversi modi di affrontare che cosa significa essere un uomo.

C.R.: L’argomento che hai scelto è molto leggero (Ridono)
G.S.: Sì, ma, il modo nel quale vorrei montare insieme questi argomenti e presentarli al pubblico, non sarà in nessun modo aggressivo verso chi sarà presente a vedere lo spettacolo.

C.R.: Perché sei interessato a muovere delle riflessioni a proposito?
G.S.: Perché la violenza che io vivo come straniero, come gay e come qualcuno che non viene da nessun centro ma dalla periferia, mi spinge a creare sempre il mio posto da qualche parte e per questo sono interessato a persone che vengono dai margini. Per me non è mai stato facile e mi piace raccontare storie di persone che hanno dovuto lottare molto più di altre. Quando lotti è perché c’e’ della violenza dentro di te: lotti contro l’oppressione, contro violenza che viene da fuori. Io voglio puntare il dito su questa violenza, ma non voglio che questo ingeneri violenza nelle persone che stanno ascoltando. Io provo sempre a trovare un dispositivo che ci permetta di condividere traumi insieme, non trasferendo questo trauma sul pubblico.

C.R.: Tu pensi che questo non accada al pubblico quando tu racconti una storia auto-biografica? Hai detto che hai creato delle situazioni che coinvolgono i sensi e, come nella vita, talvolta, dobbiamo scegliere quale strada scegliere, quale senso seguire, le persone che hanno anche una piccola esperienza di violenza, vogliono interrompere la catena delle violenze. Provare a trasformare storie, cercando di rispettare le differenze di ognuno. E’ per questo che penso che attraverso l’arte si possa rispondere alla violenza.
G.S.: Quello che penso io, per risponderti, è che possiamo parlare di qualsiasi cosa. Niente dovrebbe rimanere un segreto. Quando sei un artista, devi anche parlare delle cose sporche ed anche parlare da luoghi sporchi, ma questo non vuol dire che tu debba essere sporco mentre lo fai.

C.R.: Mi piacerebbe sapere oltre su “Pourama Pourama”, “Silent Disco”, un pò di più sull’altro spettacolo quello con tua madre e le sue due sorelle.
G.S.: Si intitola “Les Forteresses”: con me, mia madre, le sue due sorelle e altre tre attrici iraniane. Siamo sette nel palco e ci sono le tre attrici iraniane, che parlano francese e parlano al posto loro in francese. Io durante lo spettacolo le intervisto: mia madre vive in Francia, ha una sorella che vive in Germania e la terza sorella sta ancora in Iran. Sono di età molto simile, nella stessa generazione, di distanza una dall’altra di due anni, adesso tra 58 anni e 62 anni. Ho scritto un testo con tre monologhi, mescolati tra loro e ognuna di loro racconta l’infanzia, l’adolescenza e la rivoluzione, il matrimonio, il divorzio, la partenza ed in ogni storia anche la guerra certamente, la storia dell’Iran, negli ultimi sessantatre anni, attraverso gli occhi di queste tre donne che hanno lasciato il loro paese.

C.R.: “Il pourra toujours dire que c’est pour l’amour du prophète” è un altro spettacolo?
G.S.: Parla della situazione dei rifugiati LBGT provenienti dall’Iraq e dalla Siria ma questo spettacolo non credo che sarà ripresentato nuovamente.

C.R.: L’ultima domanda: vorresti condividere con noi la tua sensazione a proposito della prima volta che hai recitato in italiano? Ti è tornato indietro qualcosa di diverso dal pubblico italiano? Hai ricevuto cose diverse?
G.S.: Mi è piaciuto molto questo invito e quando Kilowatt mi ha chiesto di partecipare mi ha anche chiesto di inserire dei sottotitoli alla performance se fosse possibile. Avere la registrazione in francese della mia voce e mettere dei sottotitoli in italiano. Io credo che debba esserci una sensazione di forte intimità e se una persona avesse dovuto leggere un testo per tutta la durata dello spettacolo non ci sarebbe stata quella sensazione. Ho qualche nozione di italiano ed ho proposto io stesso di farlo in italiano. Mi piacciono le sfide ed ho un buon amico italiano che è un attore, Andrea Romano e gli ho chiesto di seguirmi in questo lavoro. Abbiamo lavorato intensamente per otto giorni, per fare le registrazioni, e ho fatto dei corsi privati di alta qualità in italiano. Non so, ma certamente nella lingua italiana c’e’ calore e qualcosa di molto accogliente e di molto bello nella lingua e nella cultura italiana. E’ un paese nel quale mi piacerebbe fare più cose. Ed ho preso questo invito come una prima occasione.

C.R.: Te lo auguro Gurshad, che questa sia stata soltanto una prima occasione in Italia e spero di poter vedere anche i tuoi prossimi lavori.Perché dai tuoi racconti sembrano delle performances molto interessanti e spero così che sarà possibile in futuro vederle anche in Italia, non soltanto in Francia e Belgio.
G.S.: Non ho potuto scambiare le loro impressioni con il pubblico, è stato tutto un pò veloce, dopo c’erano altri spettacoli. Ma ho avuto delle sensazioni molto buone dal pubblico durante la performance. Ho sentito delle connessioni strane, ma ho avuto l’impressione che l’incontro ci sia stato. “Ci siamo incontrati” con le persone del pubblico, ma non so, questo è la mia emozione personale.

C.R.: Si personalmente l’incontro c’è stato e subito dopo mi è venuta voglia di intervistarti. Grazie Gurshad per il tempo passato insieme e per i tuoi racconti. Ti auguro un’ottima continuazione di lavoro e spero di rivederti presto.
G.S.: Grazie Claudia.

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marzo, 2024

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