Tre volte Context: intervista ad Alessandro Carboni

In occasione della presentazione di Context al FITS Festival in Romania, ho pensato di presentarvi la mia intervista ad Alessandro Carboni. L’intervista risale all’estate scorsa quando, durante l’edizione del Festival Kilowatt “Questa Fervida Pazienza” svoltasi a Sansepolcro,  Alessandro Carboni ha presentato, in prima nazionale, le tre creazioni performative:  CONTEXT/trio, CONTEXT/duo, CONTEXT/solo e per la prima volta anche CONTEXT / visual, una mostra ad ingresso gratuito, localizzata, per quella occasione, nell’intimo Oratorio di Santa Maria delle Grazie a Sansepolcro. Nella mostra sono stati esposti i disegni ed i materiali preparatori, di studio, ricerca ed approfondimento utili a comprendere meglio gli spazi di interesse di CONTEXT: disegni dei corpi in movimento, misurazioni, mappe territoriali, pezzi di minerali e roccia. Materiali che hanno avvicinato i visitatori ed il pubblico alla complessità dell’intero processo di ricerca presentato dall’artista. Tutte e tre le performance presentate, fruibili anche separatamente, e gli oggetti esposti nella mostra,   incarnano da punti di vista diversi l’intero processo di ricerca. Segue l’interessante dialogo che ho avuto il piacere di scambiare con l’artista. 

Claudia Roselli: Alessandro grazie per aver accettato di fare questa intervista. Puoi presentarti come Alessandro Carboni: performer, artista, artista visuale, ricercatore?
Alessandro Carboni: Negli anni ho cercato di ridurre alla parola artista la definizione di quello che faccio. Perché, coltivando vari ambiti, in vari interessi ed in varie discipline i progetti che ho portato avanti hanno veramente attraversato l’arte contemporanea. E’ emersa l’esigenza di racchiudere in una sola parola, ovvero “artista visivo”, quello che faccio, anche perché  più ampia in possibilità. Perché pur attraversando il corpo, la performance, la cartografia, oppure l’architettura, il corpo,  eccetera,  io ho sempre comunque lavorato a partire dall’idea visiva:  anche nel movimento, anche nella coreografia. Quindi questa è la motivazione per la quale preferisco utilizzare la parola artista visivo. Mi pare la definizione più giusta, perchè il filo che ha unito tutte queste pratiche negli anni è stata questa forte relazione con il disegno. Il disegno come idea, come transfer visivo di un pensiero, ma anche disegno come azione, disegno come traccia, disegno come cartografia anche dell’anima.
Il disegno è diventato sempre il cuore pulsante di ogni progetto: sia nella progettazione, sia nella realizzazione, sia nel vedere il lavoro plastico, performativo, visivo eccetera,  sempre a partire da questo impianto grafico.  Per quello alla fine del mio lavoro, del mio percorso, mi piace definirmi come un artista visivo. Il palcoscenico diventa un piano di proiezione, cioè quel piano in cui la ricerca, lo studio, i temi che emergono dalle mie esigenze d’artista vengono proiettate in questo piano di proiezione che traccia, o meglio fa emergere le tracce che a volte sono corpi,  a volte sono oggetti. Questo è come mi definisco io,  in questo momento.

Claudia Roselli e Alessandro Carboni

C.R.: Una domanda che si innesta in questa presentazione: per arrivare poi a questo tuo ultimo lavoro artistico. Partendo sempre dal disegno, e quindi dal segno, da questi attraversamenti prima nei fogli e poi nello spazio: quali sono stati dei lavori precedenti, che pensi possano essere stati incubatori o forse preparatori per questo lavoro? Non so se sia stato a causa del Covid o a causa dell’approfondimento della tua ricerca, ma ho notato che questo lavoro è stato incubato per lungo tempo. 
A.C: Si questo lavoro è durato due anni. Chiaramente è stato anche a causa del Covid, perché questo lavoro avrebbe dovuto debuttare nel 2020. Non ti nascondo che però è stato utile perchè avere due anni per sviluppare un lavoro di questo tipo mi ha aiutato ad approfondire delle pratiche, e ad approfondire materiali. Sempre più spesso i tempi di produzione ti chiedono di sviluppare tutto in sei-sette mesi o forse anche meno e forse, avere due anni di tempo,  mi ha aiutato. C’è sempre una continuità in quello che faccio: non vedo dei progetti come delle cellule indipendenti, ma sono sempre dipendenti da altre cose e mi piace sempre pensare che l’ultimo progetto “Context”,  sia figlio del primo segno che ho fatto sul foglio di carta da bambino. Quasi come se ci fosse una sorta di continuità, anche non voluta, tra quello che è il modo di lavorare, di produrre, il processo creativo che contiene costantemente i semi di un nuovo progetto: ogni progetto contiene sempre i semi di qualcosa di altro. E’ come se un’immagine, dentro, abbia sempre delle proprietà e delle possibilità per far nascere qualcosa di altro. E’ come un processo che va per ramificazioni: alcuni rami in quel momento  sono più forti di altri e  ti portano a costruire qualcosa piuttosto di altro, ma dentro a quelle ramificazioni ci sono delle parti non ancora esplorate  che troveranno vita in altri periodi. Se dovessi fare un processo a ritroso, “Context” inizia con tutto il lavoro che ho fatto sulle metropoli contemporanee. Nel 2008, quando arrivai per la prima volta ad Hong Kong ed iniziai a lavorare  con la relazione corpo e densità urbana,  c’e’ quindi questa sorta di processo di sintesi, di astrazione radicale: a partire dalla densità di corpi, elementi, materiali, dove io ero nello spazio urbano, dove io avevo escluso la rappresentazione teatrale e di finzione ed avevo iniziato a lavorare solo in urbano, in site specific, appartenendo in qualche modo alla città e cercando di lavorare con gli elementi caotici ed anche causali della città. Quindi c’e’ una sorta di relazione , quasi  in tempo reale, con la città. Lì, avevo iniziato a lavorare sempre con un principio di astrazione, avevo infatti iniziato ad usare delle pedine,  parlando dal punto di vista visivo, una sorta di punti. Un linguaggio puntiforme.

C.R.: Ho visto un tuo lavoro con le pedine al Museo Pecci a Prato durante Contemporanea/Colline/Festival nel 2008:  WBNR ( What Burns Never Returns )
A.C.: Sì quello era l’inizio di questo percorso sull’astrazione geometrica, senza sapere che quell’immagine conteneva poi questo lavoro, questo percorso sulla geometria, questa astrazione geometrica. Questo è stato il primo lavoro dal 2008 sino al 2011-2012 sullo spazio di rappresentazione puntiforme. Continuando il percorso in quegli anni, questo processo di relazione con lo spazio urbano e con la complessità e parallelamente l’astrazione geometrica, si è venuto a delineare un percorso parallelo: da un lato questo percorso con il metodo che si chiama E&Tools che è un metodo di mappatura urbana e composizione coreografica che parla alla città e dall’altro, parallelamente a questa complessità,  ho iniziato a fare questo percorso di astrazione geometrica. Nel primo lavoro ho utilizzato dei punti, nel secondo lavoro, facendo diverse variazioni,  ho utilizzato delle linee. In “The Angular Distance of a Celestial Body”, in questa astrazione ho utilizzato quarantatre fili di cotone a terra, un lavoro, infatti, sulla linea e non sui punti. In “Context” c’e’ questo lavoro geometrico sulle figure di superficie. Quasi un lavoro, sul punto, sulla linea e sulla superficie.

C.R.: Superficie che però ho visto arrivare a definirsi come un triangolo, con delle variazioni:  combinazioni infinite di questo triangolo, ma un triangolo.
A.C: Sì diciamo che in “Context”  l’idea era quella di partire da una figura più semplice, minima che si poteva creare con tre linee. L’incrocio di tre linee forma un triangolo che è la figura più semplice, più archetipica di una forma geometrica chiusa. Diciamo che in questi dieci anni, il processo si è evoluto parallelamente: uno sguardo attraverso la complessità e l’altro attraverso come, questa complessità, si potesse tradurre in una riduzione spaziale geometrica delle forme.

C.R.: Da quello che è stato presentato nella mostra a Sansepolcro, della città, in questo ultimo lavoro, pare non ci sia più niente. Pare che partendo da un luogo abitato si sia andati ad abbandonare sempre più questo luogo, per arrivare ad un luogo quasi primigenio, dove invece si trova la roccia, la materia.  In Context_visual erano esposte conchiglie ma anche rocce ed alcune sembravano quasi dei fossili,  cose antichissime
A.C.: Ho fatto anche qui questo lavoro di estrazione di un principio. Principio di una possibilità di lettura di uno spazio urbano, o della complessità di uno spazio urbano. Poi togliendo questo principio dallo spazio urbano dal contesto città, dal contesto urbanità è diventato poi il principio che lega tutta la relazione tra corpi, elementi, materia. Quindi togliendo la gerarchia, non è più lo spazio urbano ma è tutto quello che parla della relazione tra elementi. L’idea stessa, il concept di “Context”,  è un’indagine, una riflessione sulla relazione tra gli elementi che definiscono un contesto.
Ogni qualvolta che uno di questi elementi cambia, cambia anche il contesto o meglio gli elementi stessi del contesto. Questo principio qua lo puoi applicare ad uno spazio urbano, ad una narrazione tra individui, a un contesto verbale. Lo stesso principio che era nato osservando lo spazio urbano, si era spostato poi su una visione trasversale. Come dire?

C.R.: Pluridimensionale, quasi.
A.C: Pluridimensionale quasi.

Alessandro Carboni – Context solo

C.R.: Ho usato questo termine perché per quello che ho visto mi è sembrato che nel Solo, per esempio, ci fosse una pluridimensione definita nello spazio ma anche nel tempo, nel senso che, anche con l’abito creato e a sua volta, creatore esse stesso di nuove geometrie, si sono generate anche delle soglie pluridimensionali temporali. Ovvero di contesto non soltanto geografico, mi è sembrato, ma piuttosto anche temporale, come spostarsi quasi volando. Perché quell’abito, evoca un po ‘ un volo possibile.
A.C.: Mi parli del solo, che è una sorta di showcase di pratiche. Praticamente racconta le pratiche di lavoro che poi abbiamo sviluppato negli altri due formati: nel duo e nel trio. Però si, diciamo che c’è questo rapporto a due: tra un corpo ed un triangolo nel quale si indagano le possibilità a due di questa relazione. Perchè? Perché il triangolo in questo caso,  è  unità primaria di una specie di rete, di questa molteplicità, di questo sistema che abbiamo creato, di centoventotto triangoli.  Il solo rappresenta la relazione uno a uno.

C.R.: Perchè proprio centoventotto? C’è un motivo che ha generato la scelta di questo numero?
A.C: Nel trio si usano centoventotto triangoli. Si perché una matrice ortogonale composta da otto caselle per otto, se in ogni casella ci sono due triangoli, conterrà centoventotto triangoli, e quindi c’e’ questa relazione con il numero otto. Nel trio c’e’ questa superficie composta da centoventotto pezzi. Perché una matrice di centoventotto pezzi triangolari bianchi e neri? Perchè le permutazioni che si hanno con questi stessi pezzi è un numero quasi infinito di possibilità. Ho fatto una sorta di consulenza matematica con varie figure che si occupavano di numeri, e mi hanno detto come questo numero qui, sia quasi infinito. E’ curioso perché otto elevato a centoventotto, risulta un numero indicibile. Adesso non lo ricordo neppure, ma qualcosa come miliardi, di miliardi, di miliardi di possibilità. Quasi si avvicinava alla possibili combinazioni della realtà. Per quello ho scelto un numero così. Poi anche oggettivamente, sarebbe diventato ancora più difficile. Già è complesso portare in giro centoventotto pezzi; essi uniti formano una superficie di sei metri per sei metri.

C.R.: Di che materiale sono?
A.C.: MDF e pesano circa due chilogrammi l’uno.

C.R.: Come mai hai scelto proprio una matrice composta da otto? O il numero dei triangoli è stato anche condizionato dall’idea trasportabile di superficie utile?
A.C.: Avevo questa idea che proporzionalmente e visivamente quella dimensione poi potesse anche essere l’ideale. Poi nel trio, rispetto al solo, la partitura coreografica è molto rigida e quindi c’e’ proprio una modalità di manipolazione dei triangoli. Quella dimensione della matrice completa con i triangoli  contenuti in essa, mi dava la possibilità di avere una proporzione tra corpo e spazio ideale. Cioè: una matrice da sei sarebbe stata troppo piccola ed anche una matrice da dieci troppo grande. Quindi era il numero della dimensione ideale. 

C.R.: Mentre per il solo e per il duo ho visto che hai avuto modo di interpretarli in diversi spazi, senza nessuna condizione spaziale che magari li possa limitare. Il trio anche?
A.C: No il trio no, è stato pensato solo per lo spazio scenico, quella versione di trio, perché è importante costruire una narrazione con la luce. Con luci e buio, c’e’ proprio un impianto narrativo della luce che accompagna il trasformarsi dello spazio. E’ molto importante in quella dimensione là costruire una scatola nera. Perchè c’è un lavoro su buio e luce molto importante, sopratutto quando i performers ruotano  costantemente i triangoli da bianco a nero: essedno la scatola nera, quando i triangoli sono neri lo spazio risparisce. Quindi c’e’ questa idea di sparizione dello spazio, di cancellare lo spazio.

C.R.: La musica utilizzata nel solo, che ho letto essere composta da un compositore,  è la stessa musica usata nel trio in scena? E nel duo c’è la stessa musica? Che relazione ha avuto, per te, l’elemento musica, nelle creazioni?
A.C.: A livello compositivo ho pensato a questo lavoro, come una sorta di albero genealogico o una sorta di famiglia allargata di elementi, oppure una serie TV dove c’e’ un prequel and un sequel, un pre ed un post, quindi come dire sono dei materiali che appartengono alla stessa famiglia e questi materiali vengono ricomposti costantemente come un organismo, come un sistema. Materiali che sono stati ricomposti, rimescolati, rimessi insieme e assumono costantemente versioni diverse. Trovi degli elementi che hai sentito nel solo, nella musica intendo, ma lo stesso accade anche per i movimenti del corpo, li ritrovi anche nel trio. Però l’estetica e la modalità con le quali il performer manipola è diversa. Quindi è come se tu avessi un parente lontano: riconosci la parentela, riconosci la somiglianza, ma non è la stessa cosa, è quasi un altro mondo. 

C.R.:  Solo, due e trio sono nati nelle stesse residenze artistiche o hanno avuto genealogie diverse proprio a livello di creazione?
A.C: Sono stati creati con la stessa matrice, con lo stesso mondo. Poi ad un certo punto ho deciso di separare gli elementi e di dare vita ad ogni elemento.
Come se avessi tagliato dei rami ed avessi dato vita ad ogni ramo, creando una talea e ogni elemento avesse preso vita autonomamente. Cioè la radice è la stessa, poi questa radice ad un certo punto si è separata ed ha cominciato a costruire una vita propria, un’estetica propria e un ritmo proprio. Infatti il duo è molto diverso dal solo e dal trio. I vestiti sono vestiti normali, quotidiani. Il ritmo è diverso; c’e’ sempre l’elemento triangolare ma la modalità con la quale si rapportano a questa cosa è completamente diversa.

C.R.: Puoi raccontarci di questo elemento triangolare? Come si è materializzato dalla materia altra,  quindi prima c’era la città..ma poi cosa c’e’ stato? Come si è materializzato il triangolo? Prima che ci fosse il triangolo c’erano le linee. Ma poi come è uscito questo triangolo?
A.C.: Si, si, si, prima c’erano le linee. Ma anche in cartografia di usano le triangolazioni per identificare porzioni di spazio. Quindi è come se ci fosse la realtà e poi una sorta di sovrapposizione per spazi triangolari, per estrarre degli spazi.

C.R.: Delle dimensioni precise, delle proporzioni
A.C: Poi mi sembrava una forma talmente forte in sè, quasi chiusa e impossibile da scalfire, che poteva essere interessante come elemento su cui rapportarsi. Perché spesso il corpo è più forte di un oggetto e in questo caso c’e’ questa forza talmente radicale e semplice che costringe il corpo costantemente ad adattarsi. Quindi è quasi come se tu fossi manipolato dal triangolo e non tu che manipoli il triangolo, quindi c’e’ un costante adattamento a questa forma, perchè è la forma che ti da informazioni.

Alessandro Carboni – Context duo

C.R.: Hai cominciato a lavorare con i corpi oppure prima hai lavorato con il concetto della creazione?
A.C.: Ma entrambi, in realtà c’è sempre da fare, vedere. Una sorta di loop quasi di ricerca-azione. Ricerco, vedo, torno indietro, rivado, questo loop. Ho lavorato tanto in pianta, perché sono partito da immagini in pianta della matrice da centoventotto pezzi. Questa matrice visiva, e quindi il disegno, per il duo e per il solo. Poi ho fatto dei test con il corpo, poi sono tornato indietro. C’e’ sempre questa idea di costruzione di un’immagine in sostanza dall’inizio.

C.R.: Alessandro non so se hai anche cercato dei legami archetipici con la forma, perché si percepiscono nel lavoro. Io ho pensato che tu avessi fatto un lavoro nella ricerca, non soltanto sulla geometria, ma anche sui simboli. Una ricerca simbolica, non so se l’hai fatto e l’hai voluta, oppure se è accaduta. Per esempio nel solo: nello spazio, con i vestiti, con i movimenti, con il triangolo, con i colori, anche la scelta dei colori.
A.C: Ti dico questo per mia passione anche nella mia vita ho studiato tanto simbologia, legata alla forma anche sulla tradizione sacra e su determinati ambiti, questo l’ho fatto. In questi specifici anni ho cercato di togliere tutta questa mia ricerca ed invece lavorare sulla potenza dell’immagine vuota. Ma soprattutto sul ritmo compositivo: Cosa succede per chi vede? Lavorando su questa radicalità della purezza dell’equilibrio visivo e del ritmo delle immagini. La cosa che crei è molto potente perchè hai investito tantissimo su questa cosa. Quindi questa combinazione di elementi emana un’energia, che per forza, per chi vede, direttamente la inserisce in un contesto simbolico. Perchè? Perché scatta per chi vede, un’affezione per questa immagine che chiede, richiede un’interpretazione. Perché è forte.

C.R.: Sì lo è.
A.C.: Che cosa ho fatto io per il mio lavoro? Ho cercato di togliere tutto il mio senso per quella immagine, il volere di quell’immagine perché se no, non avrei lasciato spazio agli altri di entrare. Perchè se io interpreto, vesto quell’immagine di un impianto simbolico e lo rendo partecipe al pubblico, è come se quell’immagine fosse già popolata da cose e non lasciasse agli altri la possibilità di abitarla. Il problema è sempre questo, il mio lavoro non è quello di vestirla.
La mia missione, in questo caso, è quella di proteggere quell’immagine dalla mia interpretazione, dal mio volere. E’ questo il lavoro, quindi devo raggiungere quell’equilibrio tra potenza estetica, potenza- ritmo.  Estetica perché deve essere un’immagine forte, tecnicamente forte: che abbia quell’equilibrio, quella dimensione, quella, proporzione, quella estetica là e soprattutto deve avere quella forza nel costruire un ritmo, di proposta, saturazione. C’è tutta una sorta di tecnica drammaturgica talmente forte da essere abitabile dagli altri. Se io faccio questo lavoro vuol dire che chi vede l’immagine è in grado di avere un’affezione,  se invece tu la abiti di qualcosa, è come se non ci fosse più spazio per il pubblico. Questo concettualmente. Tutti mi hanno detto “ Ah questa cosa a livello simbolico, mi ha ricordato questo, o quello. “

C.R.: Hai lasciato spazio all’individuo che osserva. Cercando altri stimoli, proprio perché ti interessava la libertà del rapporto tra l’immagine, o le immagini, o i suoni creati, i ritmi creati e chi stava in quel momento osservando o partecipando alla performance dall’esterno, ma comunque partecipando.
A.C.: Si, si,si.

C.R.: Quando mi dici ritmo, hai pensato alla matematica dei triangoli ed alla relazione ritmica tra i numeri. Oppure è un ritmo che si è generato tra le relazioni che si sono generate nello spazio, con queste forme, cioè il ritmo come lo hai attraversato, interpretato?
A.C: Quando parlo di ritmo, intendo ritmo nel senso di alternanza e successione delle cose. Una sorta di ritmo-analysis urbana, cioè capire che ritmo c’è in un evento. In questo caso il ritmo era dato dalle singole immagini, che messe insieme in un tempo, in successione, hanno bisogno di un loro tempo di vita. Entrano, escono e si mostrano con un ritmo. Questo ritmo compositivo è ritmo individuale ( di ogni immagine ) come unità, ma un ritmo in relazione con le altre. E’ una sorta di ritmo di entrata e uscita. E’ ovvio che questo ritmo di entrata-uscita, a posteriori, diventa un ritmo matematico, ma è un ritmo che non puoi prevedere. Quindi nel momento di composizione di immagini staccate, che hai creato in residenza, hai sviluppato dei micromondi. Il trio, per esempio, è stato creato con pezzi completamente staccati creati in luoghi completamente diversi. Il lavoro di composizione ritmica e drammaturgica è un lavoro complesso perché prevede dei raccordi , dei raccordi tra una cosa ed un’altra: riempire e svuotare un’immagine. Faccio accadere un’immagine e decido cosa dovrà contenere e quanto dovrà durare questa immagine per portarmi all’immagine successiva.  In questo senso parlo di ritmo, questo dà anche la possibilità, a chi vede, di costruire una sorta di narrazione simbolica. 

Alessandro Carboni – Context trio

C.R.: Mi parli dell’abito-mantello del solo?
A.C.: Il cerchio a terra?

C.R.: Cerchio a terra che ho visto utilizzato come mantello, anche all’aperto, in delle immagini.
A.C: Sì ho fatto delle foto all’aperto.

C.R.: Abbiamo già detto che nel duo ci sono abiti quotidiani e nel trio?
A.C.: Nel trio c’e’ un altro tipo di abito: le performers sono vestite di nero, ma hanno una specie di maglia con la testa triangolare.

C.R.: Sì ti chiedevo proprio del tessuto a forma di cerchio: perché non è trascurabile, è un cerchio,  ma lo puoi  indossare.  Ruoti, crei forme e movimenti:  mi è piaciuto molto quell’oggetto.
A.C: Certo si è molto forte. Quell’oggetto, perché non voglio chiamarlo neppure abito, è partito, come idea, per me, dalla matrice. Nel trio la matrice è fatta di elementi rigidi, questi triangoli  sono centoventotto e vengono ruotati, ma non hanno mai un cambio di posizione. C’era l’esigenza di creare questa matrice molto rigida ed ortogonale. Una sorta di pavimento inamovibile. A me è venuta un’idea, che ad un certo punto che questa matrice potesse sognare ed avesse una specie di anima. Nella sua possibilità di sognare, ci fosse questa sorta di elevazione, lei si potesse staccare e potesse diventare morbida. Ho immaginato, in questo sogno, che avvenisse quasi come un cambiamento di stato della matrice ed ho ragionato su questa idea di movimento, di morbido piuttosto che rigido.  Come se questo piano rigido, potesse prendere vita ed emergere da sotto, prendendo vita e diventando morbido. Una sorta di sogno che la matrice ha fatto trasformandosi in una figura. Dando origine, però, a che cosa? Dando origine addirittura ad un’altra forma: il cerchio, che racchiude in sé un movimento infinito.

C.R.: Quasi un vortice.
A.C.: Si quasi un vortice che è una forma che non trovi mai in questo lavoro. Ma voglio dirti, che come in tutti i miei progetti, c’è sempre qualcosa dentro che poi è il seme per il progetto futuro. Questa cosa qua, probabilmente, che non è chiara neanche a me, però l’ho messa, ed è, probabilmente il seme del progetto che svilupperò nel 2022.

C.R.: Hai già qualche idea? Vuoi anticiparci qualcosa? Te lo avrei chiesto tra poco.
A.C: Sì sto lavorando, in continuità con questa idea dell’esplorazione geometrica, su tutto quello che è volume. Tutto quello che è volume, spazio..

C.R.: Materico?
A.C.: Spazio chiuso, si materico, Tutto quello che è spazio chiuso. L’idea del vuoto e di involucro, di materia, di dentro-fuori.  Quindi probabilmente quell’idea là, di questa forma morbida, di questo volume che si crea, di questa torsione e della tridimensionalità che si torce, probabilmente era già dentro questa idea.

C.R.: Era già dentro al cerchio?
A.C.: Era già dentro al cerchio o dentro questa materia. Ma ancora non so, devo capire.

C.R.: Nel 2022 sai già dove lavorerai?
A.C.: Ho già un partenariato, ma con calma, sarà credo alla fine del 2022 inizio del 2023 probabilmente. 

C.R.: Affronterai la parte di “volume”?
A.C.: Sì diciamo che voglio lavorare su questa cosa. Sempre su questa relazione tra corpo-materiali, però sfruttando un po ‘ anche questa altra possibilità. Avere una continuità, dal punto fino al volume, come spazio di indagine.

C.R.: L’ultima domanda: perchè tu non hai partecipato fisicamente al progetto?
A:C.: Come performer intendi? Non mi piace tanto come modalità. Sono due lavori completamente diversi. Io questo lavoro l’ho pensato da fuori e non da dentro. Pensandolo da fuori, l’ho pensato visivamente e quindi ho visto qualcosa staccato da me, come opera staccata dal mio corpo, come se quegli elementi là, fossero una costruzione visiva, una costruzione pittorica anche.
Come pittore utilizzi una superficie staccata da te e quindi l’ho visto come un lavoro molto più visivo e non performativo. Poi non amo, e questa è una mia scelta molto molto personale, quando chi pensa al lavoro è anche in scena con altre figure, perché si crea un campo con energie molto diverse. Oppure se vuoi farlo, devi essere molto molto bravo ad equilibrare la tua energia in quanto autore ed energia in quanto interprete. Essere interprete di se stesso è un pò un paradosso. Un interprete è uno che interpreta qualcosa, devi essere molto molto bravo per essere in equilibrio con altre figure, che conoscono parzialmente il lavoro. Perché chi lavora con te, i tuoi collaboratori, non possono conoscere al cento per cento il lavoro, ne conoscono una porzione, più o meno. Non conoscono esattamente tutto.

C.R.: Ora qui si apre..
A.C.: ..un altro mondo!

C.R.: E’ si, un altro mondo, perchè vorrei farti tantissime domande anche su questo, perchè invece il lavoro quello citato in apertura dell’intervista, il lavoro con le pedine, vedeva te in scena. C’eri tu.
A.C.: C’ero io, infatti era un solo. E’ stato pensato per me quel lavoro. Per questo ti dico, quando io penso ad un lavoro per gli altri e non per me, ho un atteggiamento rispetto al lavoro completamente diverso. Ripeto non mi ci vedrei per niente in scena: anche perchè alcune cose che io ho pensato, proprio tecnicamente, io non le so fare. Quindi c’e’ anche una sorta di necessità di staccarsi da quello che hai pensato, assumendo un altro ruolo, che è più di coordinamento visivo di tutto, di regia, di direzione che non di interpretazione. Faccio interpretare ad un altro.

C.R.: Si è un altro lavoro.
A.C.: Sì è un’altra cosa. Anche per me è più onesto rispetto agli altri, anche perché quando sei in scena con gli altri, hai questa energia diversa, sei privilegiato. Ed invece penso che non debba essere così: non devi essere privilegiato rispetto agli altri.

C.R.: Alessandro ho capito, non abbiamo più tempo a disposizione per noi oggi, ma ti ringrazio per il tempo passato insieme e dedicato all’intervista. Spero che ci sarà modo prima o poi di approfondire alcuni aspetti del tuo lavoro.
A.C.: Perchè no? Grazie a te e a presto.

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marzo, 2024

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