Fattiditeatro è partner di Compagnia Teatrale Petra per la II edizione di Teatro Oltre i Limiti. Siamo felici di questa collaborazione che inauguriamo con un’intervista approfondita a Antonella Iallorenzi, fondatrice della compagnia con sede a Satriano di Lucania in provincia di Potenza.
Antonella Iallorenzi e la Compagnia Teatrale Petra
Simone Pacini: Antonella, il progetto “Teatro Oltre i Limiti”, partito nella sua II edizione alla fine del 2018 e che durerà fino a febbraio 2020, arriva dopo oltre un decennio di attività della tua compagnia nel teatro sociale. Com’è cambiato – se è cambiato – il tuo approccio alla formazione in questi anni? Com’è cambiata – se è cambiata – l’istituzione “carcere”?
Antonella Iallorenzi: Siamo partiti con il progetto Antigone in carcere, vincitore del Premio Cecilia Salvia promosso dell’Autorità per i Diritti e le Pari Opportunità della Regione Basilicata, un primo esperimento di conduzione di un laboratorio nella sezione femminile della Casa Circondariale di Potenza ma anche e sopratutto di conoscenza del mondo del carcere. Nell’immaginario comune quello del carcere è un luogo chiuso e complesso, che fa paura. Le prime emozioni che ricordo sono sicuramente emozioni forti accompagnate dal rumore assordante delle pesanti porte di metallo che si chiudevano alle mie spalle nel lungo corridoio che mi portava alla sala nella quale avrei tenuto il corso. Questo chiudersi dietro, porta dopo porta, con quel rumore metallico mi caricava di energia.
La meraviglia che regala il linguaggio teatrale, a noi operatori, agli allievi, al pubblico, è la capacità di mettere le ali allo spazio nel quale operi, che sia un carcere, una sala, una scuola. Nel momento in cui ci si alza, si va in cerchio e si inizia il lavoro, quello che di meraviglioso accade èlaconnessione che si genera tra le persone,attraverso la parte più creativa e più intima di sé. Dopo questa prima esperienza nel femminile di Potenza e una conduzione nella Casa Circondariale di Brindisi siamo ritornati a Potenza e poi a Matera.
Nonostante la mia formazione accademica non mi ha mai portato a pensare che il teatro fosse terapeutico per i detenuti, il teatro ha la capacità di unire le persone e di immaginarci diversi da noi (facciamo finta che) per cui se una persona che vive una situazione di detenzione immagina in un’improvvisazione base di vivere una situazione X, diversa da quella in cui vive, l’immaginarsi diverso è il primo passo verso il cambiamento.
Quando sono arrivata a Potenza, non c’erano compagnie teatrali che operavano nella Casa Circondariale, solo esperienze sporadiche di volontariato. Ho dovuto costruire un rapporto, riconoscere le stellette sulle spalle degli agenti, il personale, imparare a capire come muoversi, al cancello se suonare e se accedere con l’auto, dove parcheggiare, gli avvocati, la portineria, cosa portare dentro e cosa lasciare fuori (tutto), entrare con solo una penna e un quaderno, attraversare il corridoio senza guardarsi intorno (no, non è concesso sbirciare). Ho dovuto imparare a riconoscere e decodificare le regole di un luogo del tutto eccezionale nel quale la società civile solitamente non entra, competenze che acquisisci col tempo o se hai operato sul campo con un percorso di formazione mediata, cosa che a me è successa grazie ad un tirocinio a Volterra, centro di eccellenza del teatro in carcere in Italia.
In questi anni siamo cresciuti insieme, come compagnia teatrale con metodi e progetti, e come Casa Circondariale che ha imparato a spingersi oltre, il primissimo esito scenico del laboratorio teatrale realizzato era aperto solo alla popolazione interna, nella seconda esperienza agli operatori legati al mondo del carcere o a noi vicini, poi ai familiari, alle scuole e ad un pubblico esterno. L’istituzione carcere a Potenza è cambiata, si è resa disponibile alle nostra richieste, alla nostra follia e ha creduto in noi. È cambiata l’amministrazione, da un provveditorato solo lucano siamo passati ad un interregionale di Puglia e Basilicata con il Provveditore Carmelo Cantone, che fortunatamente viene da esperienze di teatro importanti come quella di Rebibbia, negli anni del film Orso d’oro al Festival di Berlino 2012, Cesare deve morire, pellicola girata in uno stile docu-drama che narra la messa in scena del Giulio Cesare di William Shakespeare da parte dei detenuti di Rebibbia diretti dal regista teatrale Fabio Cavalli.
L’istituzione carcere si sta evolvendo in positivo, grazie ad una serie di spinte che arrivano anche dal Ministero di Giustizia che invita le istituzioni carcerarie a realizzare eventi teatrali in occasione della Giornata Nazionale del Teatro in carcere il 27 marzo di ogni anno, grazie all’attenzione da parte delle aree pedagogiche alle attività trattamentali come quelle teatrali. Nel 2016 abbiamo sottoscritto un protocollo di intenti tra il Provveditorato e alcune realtà laboratoriali operative in ambito teatrale e culturale nelle regioni di Puglia e Basilicata, un coordinamento interregionale segno di crescita e attenzione. Ancora tanto va fatto, soprattutto da parte del Ministero a sostegno degli operatori.
Vergogna e bellezza
Simone Pacini: Il teatro sociale va molto di moda. Ci sono anche Master dedicati. C’è qualcosa che differenzia “Teatro oltre i limiti” dagli altri numerosi progetti che vengono realizzati ogni anno nelle carceri italiane?
Antonella Iallorenzi: Dal 2017 facciamo parte del Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere, abbiamo seguito negli anni passati la rassegna Destini incrociati venendo a conoscenza di tante altre realtà nazionali e di alcune ne conosciamo le attività. Non so nello specifico in cosa si differenzia il nostro progetto dagli altri, ma so che il nostro intento è aprire un luogo creando un ponte verso l’esterno in un territorio diverso dal resto d’Italia. Le attività che portiamo avanti in Basilicata, grazie al nostro progetto, potrebbero sembrare obsolete rispetto a progetti realizzati in Toscana 15 anni fa o addirittura 20 ma non lo sono per noi che arriviamo in un territorio vergine da questo punto di vista. Siamo felicissimi di confrontarci con realtà che hanno già segnato in modo notevole la storia del teatro in carcere e guardiamo loro con ammirazione, dobbiamo però tenere conto del nostro territorio, del nostro provveditorato, della nostra amministrazione e soprattutto dei cittadini lucani che hanno, se ce l’hanno (speriamo), la voglia di entrare in relazione con questo mondo, questa realtà, un luogo periferico nel quale abitano persone che sono cadute nella loro vita e che vivono secondo l’art. 27 della Costituzione Italiana un trattamento, anche teatrale. Noi attraverso il nostro linguaggio cerchiamo di ribaltare una concezione detentiva favorendo una nuova visione, da luogo di vergogna a luogo di bellezza aprendo il nero che c’è dentro di noi, nei detenuti ma anche in tutti quelli che sono attratti da questo luogo nel modo sbagliato. Spesso è capitato all’inizio della nostra esperienza di trovarci di fronte persone con una attenzione morbosa verso il luogo carcere.
Pensiamo che le buone pratiche o i progetti illuminati dei nostri colleghi presi e calati sul nostro territorio potrebbero non funzionare e siamo abituati a strutturare le progettualità sulle carenze, sulle domande del nostro territorio, su quello che pensiamo possa essere utile alla crescita territoriale. Perché vale la pena fare teatro in carcere a Matera nel 2019? Perché Matera non ha un teatro e noi abbiamo trovato una location nel luogo più inaccessibile della città perché dovevamo parlare di vergogna (Humana vergogna, performance di Matera Capitale Europea della Cultura 2019 co-prodotta da #reteteatro41 e Fondazione Matera-Basilicata 2019 è stata replicata per ben nove volte nella Casa Circondariale di Matera per trasformare il concetto di luoghi della vergogna in luoghi di cultura). Così come per Potenza che ha bisogno di rompere alcune dinamiche legate agli stereotipi su questo luogo, porteremo il pubblico lucano a vedere spettacoli teatrali in carcere.
Un network per il teatro e carcere
Simone Pacini: Hai rapporti con altre esperienze di teatro e carcere? Puoi raccontarmi se hai avuto modo di collaborare o di entrare in contatto con alcune di esse?
Antonella Iallorenzi: La prima realtà con la quale sono entrata in relazione è stata quella della Compagnia della Fortezza di Volterra, grazie al master Teatro nel Sociale e Drammaterapia a La Sapienza di Roma. Sono stata lì per scrivere la mia tesi di laurea su Santo Genet e sono entrata in relazione con Armando Punzo e la sua ricerca. Seguo da sempre il suo lavoro, lo scorso anno ho partecipato al workshop Per aspera ad astra, un progetto nazionale sperimentale sul Teatro in Carcere. Il lavoro di Armando per me è un lavoro di eccellenza, si relaziona con i detenuti-attori per mettere in pratica una sua poetica da artista, è questa la sua vera potenza che si ritrova e si rivede nella qualità altissima degli elaborati finali che propone all’interno del carcere e in tournée.
Dopo Volterra, sono entrata in contatto con la Compagnia Io ci provo che ha lavorato nella Casa Circondariale di Lecce nella figura di Paola Leone. Il suo è stato un contatto importante, una donna che mi ha dato tantissima forza nel lavoro che noi svolgiamo al sud, parlo di sud in quanto al centro-nord altre realtà beneficiano di finanziamenti maggiori che aiutano a strutturare il lavoro nel tempo, finanziamenti che servono per realizzare un progetto di valore. Paola ha risposto a tutte le mie domande e frustrazioni, la chiamavo in qualsiasi momento per disperarmi perché non riuscivo a sbloccare la fiducia con gli agenti, è stata lei che mi ha spiegato come far entrare i familiari dei detenuti alle repliche mettendo in contatto Direttore e Comandante di Lecce con Direttore e Comandante di Potenza. Quindi sicuramente il suo lavoro è stato per me importantissimo.
Altre realtà con le quali siamo entrati in contatto, oltre a quelle incrociate grazie al Coordinamento, sono state quelle di Fabio Cavalli, mio docente universitario, con il suo lavoro a Rebibbia, Daniela Mangiacavallo a Palermo, il Kismet di Bari, Ivana Trettel con Opera Liquida. Un lavoro che sto attenzionando in questo periodo è quello che Stefano Tè porta avanti con il Teatro dei Venti nella Casa Circondariale di Modena e nella Casa di Reclusione di Castelfranco Emilia.
Attraversare i limiti
Simone Pacini: Fin dal titolo, una delle parole chiave del progetto è sicuramente: “limite”. Qual è il limite maggiore che incontri nel tuo lavoro di artista e operatrice culturale e in generale in quello della tua compagnia?
Antonella Iallorenzi: Il primo limite che incontro nel mio lavoro è sicuramente un limite di prospettiva, di poter lavorare su una progettualità ampia ed è soprattutto un limite finanziario, il fatto di non avere come in altre regioni un fondo economico che in modo pluriennale finanzi il progetto in carcere ci porta a non avere certezze e per poter fare un lavoro di qualità abbiamo bisogno di pluriennalità. Il nostro lavoro è un lavoro che si deve rinnovare continuamente ma sull’azione carcere non avere un finanziamento che ci aiuti nel tempo è un grande limite.
Il non avere un sistema teatrale regionale di programmazione che possa alimentare il nostro sguardo e la nostra uscita, cosa che facciamo sempre e solo con le nostre forze, è un altro grande limite. Siamo tornati in Basilicata dopo esperienze in Italia e all’estero in quanto per noi era la terra del possibile, dove poter lavorare grazie alla presenza di un teatro comunale nel nostro piccolo borgo (Satriano di Lucania – Pz), un carcere a pochi chilometri, una scelta fatta con consapevolezza, però a volte è faticoso.
Altro limite che evidenziamo è quello legato all’engagement di un nuovo pubblico, azione che non dovrebbero fare solo le compagnie teatrali attive sul territorio ma che dovrebbero mettere in campo anche i circuiti e le politiche culturali legate al teatro, un processo molto più lento che altrove. Anche se nel tempo sta cambiando, un altro limite che percepiamo come compagnia è quello di non avere collaboratori competenti nel nostro ambito e tutto quello che facciamo lo facciamo solo in formazione.
Un Teatro “dentro”
Simone Pacini: Un recente post dalla pagina facebook della compagnia dice: “oggi con la chiusura del laboratorio “Operatore per l’allestimento scenico” abbiamo segnato un nuovo inizio. L’inaugurazione di uno spazio teatrale che viene messo a disposizione della città, una nuova avventura all’interno della Casa Circondariale di Potenza.” Avete costruito un teatro in carcere? Puoi raccontarmi?
Antonella Iallorenzi: Sì, abbiamo costruito un teatro in carcere! La prima azione di Teatro oltre i limiti, progetto della Compagnia Teatrale Petra finanziato dall’Unione delle Chiese metodiste e valdesi, è stata quella legata alla formazione di figure professionali, ovvero di tecnici specializzati nella gestione delle apparecchiature di illuminazione e fonica teatrale e nella realizzazione di scenografie ed elementi scenografici. Questa azione è stata realizzata con il contributo dell’Agenzia Regionale LAB – Lavoro Apprendimento Basilicata.
I detenuti con questa attività hanno reso fruibile lo spazio bianco della sala teatrale, da poco ristrutturato, presente nella Casa Circondariale di Potenza per ospitare qualsiasi tipologia di spettacolo teatrale. Con Angelo Piccinni, direttore tecnico del progetto, la presenza di un architetto e il mio coordinamento i detenuti dopo un corso di formazione in aula, sul teatro e il teatro in carcere, l’acquisizione di un vocabolario tecnico e la conoscenza della strumentazione, hanno pensato, progettato, disegnato e, martello chiodi e tavole alla mano, costruito la pedana. È questo uno spazio aperto non solo alle attività interne ma anche a rassegne teatrali, con la partecipazione di artisti del panorama nazionale, azione realizzabile grazie alla collaborazione delle agenzie culturali del territorio. Spettacoli ma anche momenti di apertura ed incontro tra artisti e detenuti in un percorso di esplorazione del mondo teatrale.
Poetica teatrale in carcere
Simone Pacini: “Teatro Oltre i Limiti” ha anche una serie di “percorsi” pensati per il dialogo tra gli artisti, la cittadinanza e la popolazione carceraria. Mi parli del percorso più innovativo che avete immaginato?
Antonella Iallorenzi: I percorsi che intendiamo avviare vogliono aprire e far conoscere il mondo del teatro in carcere. Nella prima edizione del progetto, nel 2016, abbiamo organizzato degli incontri sul carcere, sul teatro in carcere come conoscenza base, per favorire una più ampia consapevolezza del luogo. Quest’anno vogliamo aprirci alla poetica teatrale, quanto un luogo ritenuto così “lontano” nell’immaginario collettivo può aiutare la poetica degli artisti e quanto viceversa la poetica degli artisti può stimolare i detenuti. Vogliamo vedere come questi contesti, carcere, società e poetica teatrale, dialogano tra loro generando scambi. La vera innovazione sta nella rottura degli stereotipi legati al mondo carcere, stiamo cercando di giocarci senza però annullarli o mettendo buone parole, giocheremo con questi stereotipi creando dei cortocircuiti tra mondi diversi. Metteremo insieme cose che tra di loro non c’entrano nulla generando interesse.
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