Siamo tutti un po’ Mattia Pascal

Siamo tutti un po’ Mattia Pascal: questa, di fatto, la tesi di “Mattia – A life changing”, drammaturgia di Bruno Fornasari – pure alla regia –, al debutto il 13 febbraio al Teatro dei Filodrammatici ed in scena fino al 9 marzo. Perché a chi non è capitato di pensare: “Ora mollo tutto e… al diavolo!”? Chi, specie di fronte alle impreviste complicazioni di una vita che spesso ci prende la mano, non accarezza l’idea di gettare la spugna: semplicemente sparire. E tanti saluti! Senza dare spiegazioni… senza tanti inutili sensi di colpa.

Ma, se nel testo pirandelliano il protagonista infilava l’insperato pertugio di un’opportunità non richiesta, al contrario questo moderno Mattia Pascal se la cerca e se la studia, la via di fuga ottimale: perché nell’epoca di internet e della rintracciabilità informatica non è altrettanto semplice semplicemente sparire…

Mattia - a life changing experience
Mattia – a life changing experience

Non lo è per nessuno e, meno che mai, per chi alla fuga sia in parte costretto: dal precipitare degli eventi… dall’opacizzarsi di quella facciata, che da fuori sembra una cavalcata rampante anni “90. Ma, di fatto, i due piani un po’ si sovrappongono: così la necessità di una fuga verso una nuova identità è solo l’altra faccia di un desiderio di realizzazione da sempre diverso da quella a cui la vita lo ha portato. E Mattia la coglie al volo, alla fine, quando ne è costretto. Studiandosela, senza tante riserve. Fino alle estreme conseguenze: una cravatta colombiana, uno squarcio preciso, da orecchio ad orecchio, segando – di netto! – la giugulare; il beffardo sorriso di chi venga inchiodato proprio dalle complicazioni di quella vita reale, da cui ha cercato di scappare: ma poi ne è rimasto invischiato, attraverso gli impalpabili ma inscindibili fili della rete.

Questa la trama; la messa in scena, invece, ci restituisce il tutto nei toni leggeri di una commedia friendly, all’apparenza, dove il pubblico viene invitato a salire sul palco per un brindisi ed una foto, prima dello spettacolo: a sedersi su quel divano bianco (co)protagonista delle fasi salienti della vita di Mattia.

E’ un’alternanza fra scene brillanti e corali, in cui ci vien raccontata la vita bella del giovane – carriera, successo, amore, famiglia… – e invece quelle più intime, che ce ne restituiscono la portata decisamente più umana e dolorosa. Anche registicamente si assiste ad un gap: luce anche in platea, durante i momenti del racconto brillante – la scalata al successo come anche la ricostruzione delle indagini per appurare se la sua morte non fosse solo un caso di runaway (= il fenomeno della scomparsa volontaria di un soggetto con conseguente ricostruzione di una nuova identità altrove) – e luci basse, invece, e toni che virano verso una portata decisamente più drammatica, quando vengono ricostruiti i suoi reali stati emotivi: il suo quinto compleanno, ad esempio, in cui morì il padre o la confessione fatta, a centro palco – microfono a stecca – del suo piano di fuga per… claustrofobia esistenziale. Fors’è questa una delle scene più poetiche e di maggior – intensa – verità: la doppia confessione di Mattia – un sempre convincente Tommaso Amadio, a centro palco: tirato fuori dal buio da un proiettore a picco su di lui e riparato emotivamente dall’onnipresente divano, qui disposto in verticale quasi a fargli da puntello… – e Valeria – la brava Perdonò: a recitar la moglie -, accoccolata, in un angolo, a bordo palco. Soffrono, entrambi, della stessa malattia – pirandellianamente: il gioco delle parti… Entrambi si scoprono – a distanza d’anni – imprigionati in dinamiche e clichét, in cui non si riconoscono. Lui è ancora là, nello sguardo di quel bimbo di 5 anni, che sente una frase magica – “Meglio bruciare subito, che spegnersi lentamente” (“Like my fire”, cantata dai Doors) – e sa che ora è arrivato il tempo di ardere; lei, invece, non se l’è mai potuto permettere, il lusso di ‘mollare’: e questo li ha allontanati. Altro locus registico sono le scene recitate nello spazio della platea: lo scontro fra Mattia e Mino/Michele Radice, ad esempio, a restituire una verità combattuta e con l’intento di tornare a chiudere quel cerchio di coinvolgimento col pubblico, inaugurato dal brindisi iniziale sul palco.

E poi alcune immagini/idee pirandellianamente ricorrenti: la condanna ad indossar una maschera, il senso d’oppressione derivante dallo iato fra la parte che si è costretti a vivere e l’idealità che ci lusinga; il rapporto col padre – tema predominante de “Il fu Mattia Pascal” ; il bip del respiratore della madre; la deriva di rapporti che, come le cose, non son più fatti per durare. Ma poi forse un po’ risulta estraniante questo ciclotimico scarto fra una realtà volutamente cinica e vincente – anche se solo all’apparenza – e tutto il sommerso emotivo – non a caso il Mattia pirandelliano segue una terapia psicanalitica, per riuscire e farlo affiorare –, che sembra materia altra da fornire ad un racconto parallelo. Gratuitamente sferzanti sembrano anche certe stilettate dal sicuro esito esilarante – “Tanto per dire un’ovvietà…” piuttosto che il monito: “Troppo romantico…” -, che davvero sanno di ‘censura edipica’: quasi ad esorcizzare la possibilità di tuffarsi in un discorso più approfondito e doloroso: ambito che, al contrario, si ha invece il coraggio di toccare, a luci basse…

Quindi? Solo una scelta di registro per vivacizzare il ritmo del racconto? O, forse, il canone per dirci di quanto, inesorabilmente, ciascuno reciti la propria parte.

Francesca Romana Lino

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